Abbozzo di Poetica, critica e storia letteraria (1960

Poetica, critica e storia letteraria, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, s. VII, n. 1, Firenze, gennaio-aprile 1960, pp. 5-33, poi in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit. È la prima stesura dell’omonimo saggio che sarà ampliato nel volume Poetica, critica e storia letteraria, Bari, Laterza, 1963, 19808.

Poetica, critica e storia letteraria

L’attuale situazione della critica italiana è contrassegnata da un ampio movimento di ripensamenti metodologici, da un’esigenza di tradurre esperienza critica in coscienza metodologica, di confrontare istanze ed esperienze sul metro di principi generali e in una maggiore volontà di coerenza fra posizioni critiche e posizioni ideologiche, magari politiche, e una lotta per l’affermazione, variamente ingenua o avveduta, di nuove poetiche. E se viceversa si può notare insieme una certa sproporzione fra questa volontà e le offerte non molto sicure e impegnative del pensiero estetico e spesso una certa prudente fedeltà applicativa e specialistica a metodi di ricerche tecniche particolari (che pur rappresenta un modo di reazione a vecchi eccessi formulistici e ad ambizioni troppo generiche del periodo idealistico), mi pare indubbio che sia constatabile in generale un fermento e una irrequietezza che a volte si risolvono in frettolose e successive adesioni a nuove proposte della critica straniera ma che piú profondamente implicano la necessità e l’utilità di nuovi chiarimenti e di un dialogo spregiudicato, e consapevole sia dei rischi dell’eclettismo sia di quelli di posizioni partigiane e unilaterali.

Certo da noi una tradizione critica di alto livello (a cui le migliori posizioni nuove non mancano di riferirsi recuperandone, anche se in atteggiamento polemico, una lezione di scaltrita esperienza e di complessità dialettica) impedisce o attenua gli sbalzi e i révirements precipitosi che René Wellek recentemente – in una conferenza a Firenze – denunciava con accenti appassionati nella situazione della critica americana (l’assalto di un nuovo contenutismo e di uno storicismo di bassa lega alla roccaforte del new criticism) trasferendone la particolare drammaticità in termini generali, e per noi piuttosto impropri, di una lotta fra uno storicismo relativista e una retta impostazione dei compiti della critica di poesia che a noi poteron sembrare piuttosto ancorati ad accezioni troppo sommarie dello storicismo e ad una troppo rigida distinzione fra teoria letteraria, storia e critica.

Ma è certo che rischi di contenutismo e formalismo (per adoperare le parole di una querelle che ha, a diversi livelli, appassionato diverse generazioni critiche) non mancano di manifestarsi anche nella nostra cultura e che, sia nel loro pericolo, sia nella loro fecondità di stimoli e di contributi, essi rimandano alla necessità di una nuova presa di coscienza dei compiti della critica e all’utilità di un dialogo, al di là della semplice fedeltà alla coltivazione del proprio giardino.

A questo dialogo (tanto piú proficuo quanto piú parta da esperienze non improvvisate e concretamente attive nell’esercizio critico diretto) intendo partecipare con questa ulteriore identificazione della mia esperienza e della mia prospettiva critica, non con la pretesa di risolvere in queste, con queste le istanze diverse della attuale problematica[1], ma certo mosso dalla persuasione di aver sempre, e ora tanto piú, cercato una via di ricostruzione e interpretazione storico-critica della storia letteraria e delle personalità poetiche unitaria e centrale: anche se ben consapevole del limite stesso di tali parole in ogni campo dell’attività umana e particolarmente della critica, inevitabilmente legata al margine di gusto personale e storico del critico, all’angolo della sua esperienza specifica e alla complessità e ricchezza inesauribile del suo generale oggetto di studio, e ben consapevole del fatto che ogni critica non può avere in sé una «tendenza», pena la sterilità o l’eclettismo.

Dico centrale ed unitaria in quanto, a vario livello di maturate esigenze interne e di stimolo e arricchimento di esperienze altrui (sino alla tensione piú recente delle istanze stilistico-linguistiche e di quelle dello storicismo di origine marxistico-gramsciana), la piú istintiva e meditata tendenza del mio lavoro critico si è caratterizzata come disposizione a interpretare la poesia entro il vivo rapporto con tutta la personalità dinamica del poeta e con la sua complessa e varia esperienza storica e letteraria, e le singole personalità poetiche non solo nel rapporto della loro poesia con tutta la vita nelle sue dimensioni culturali e storiche, ma entro la tensione espressiva estetica del loro tempo, nel dialogo con la contemporaneità letteraria e con la tradizione, con le tendenze del linguaggio e del gusto, avvertite nel vivo nesso fra esperienze ed esigenze vitali e culturali di una società e civiltà e la poetica che le orienta e commuta in direzione artistica: non in una serie continua e materiale di causalità deterministica, ma nel dialettico e vivo rapporto di nessi e gradi di condizionamento concreto, in cui la novità della poesia non viene mortificata, ma tanto meglio intesa e valutata nella sua forza originale, storicamente e personalmente individuata, che non in un accostamento di pura sensibilità, alla fine inevitabilmente frammentistico. Ché come non si può veramente intendere un verso isolato dal suo contesto (gli equivoci decadenti sul verso della Stampa: «vivere ardendo e non sentire il male»), e da un contesto inteso nel suo preciso significato entro le ragioni interne di tutto il poeta e del suo sviluppo, nelle forme del suo linguaggio e dell’impegno creativo che lo motiva, cosí questi a lor volta non possono venire intesi senza la conoscenza del linguaggio di un’epoca, delle sue direzioni di tensione poetica e, attraverso queste, di tutta la vita storica che pur in quelle si esprime peculiarmente.

Pur accettando, fuori della sua precisa accezione platonizzante e romantico-estetistica, la sentenza keatsiana che «a thing of beauty is a joy for ever», sarà evidente la diversa pienezza e sicurezza con cui la «gioia per sempre» sarà valorizzata nella sua ideale eternità poetica attraverso la comprensione dei modi particolari, personali e storici che han permesso al poeta di esprimersi, di elaborare la sua immagine nella sua concreta esperienza vitale e storica, nel dialogo con gli altri poeti del presente e del passato, nel rapporto vivo e concreto con la sua concezione e volontà di poesia e con le concezioni e volontà di poesia del suo tempo.

Per capire il for ever occorrerà, come per ogni valore umano (azione morale, pensiero filosofico), intenderne il processo di affermazione generale e peculiare, occorrerà riimmergersi con tutti gli strumenti a ciò atti nella concreta situazione del poeta e nella sua direzione fondamentale, né ciò potrà farsi senza insieme riimmergersi nel mondo storico e artistico in cui si è formato e affermato, senza comprendere la tensione espressiva di quel mondo, la sua problematicità e tensione di direzioni culturali e letterarie.

Questa tendenza storico-critica (alla cui unitaria e centrale istanza di interpretazione dei fatti artistici in tutta la loro connessa storicità peculiare e generale paiono anche sollecitare e rimandare a lor modo almeno certi elementi delle tendenze attualmente piú vivaci e vistose della critica: storicità del linguaggio e dello stile, storicità sociale e culturale dell’opera d’arte) si è soprattutto appoggiata ad una particolare base di ricerca, ad una prospettiva di studio capace di sostenere e avviare la realizzazione di un’operazione critica e storiografica unitaria ed articolata, attenta alle forze attive dell’ispirazione e del loro concreto alimento vitale, culturale, storico, e alla loro disposizione a tradursi artisticamente nell’assiduo lavoro espressivo fino al suo risultato estremo, all’estrema precisazione stilistica, con cui la parola poetica sale dal caldo fermento vitale e dagli impegni interiori e storici dello scrittore – che ne avvalorano (non determinano) la necessità e pienezza poetica (distinguendola da una esercitazione tecnicistica e da una improvvisazione dilettantesca) – sino alla sua realizzazione che ne fa una forza effettiva, un’autentica nuova realtà, e ritorna, proprio per tale sua artistica intera validità e per la sua intera umanità e storicità, nella storia umana. E continua la sua vita attiva nello sviluppo della critica, nella tradizione, nella tensione umana culturale e poetica che essa contribuisce a suscitare quanto piú sia intesa non come termine di fruizione estetizzante o di fredda misurazione tecnicistica, o di adesione a puri contenuti grezzi, ma come nuova realtà poetica, come termine di tensione di una esperienza fondamentale e peculiare nella vita degli uomini. Tanto piú alta quanto piú artisticamente realizzata, ma tanto piú artisticamente valida quanto piú ha impegnato e commutato in arte tutte le forze umane e culturali del poeta, la sua storicità-umanità: storicità riconoscibile come umanità, umanità viva in quanto storicità.

Quella base e quella prospettiva sono state e sono per me (con un approfondimento e arricchimento che conseguono da un esercizio concreto e da una viva apertura alle esperienze di altri critici) l’uso storico-critico della poetica, l’individuazione e l’adozione strumentale di un aspetto e momento dell’esperienza artistica riconoscibile nella concreta realtà delle singole esperienze personali e nella tensione artistica delle varie epoche.

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Distrutta dalla meditazione estetico-critica romantica la nozione di poetica come equivalente di estetica e come complesso di regole buone per ogni poeta e magari per ogni tempo, proprio dal seno del romanticismo (che puntava variamente sulla collettività della poesia popolare e sull’identificazione di poetica e ispirazione: «on se fait toujours la poétique de son talent», come afferma la Staël) e dai suoi svolgimenti poetici e critici piú profondi e moderni (spesso in contrasto netto con le le sue forme piú immediate e vistose: poesia come soupir e sanglot, raptus mistico e sfogo sentimentale) si venne pronunciando un’accezione nuova di quella nozione come piú intimamente attinente allo stesso operare poetico, come consapevolezza attiva dell’ispirazione, magari sino alla configurazione di una virtuale capacità critica del vero grande poeta secondo le parole di Baudelaire: «Il serait prodigieux qu’un critique devînt un poète et il est impossible qu’un poète ne contienne pas un critique... tous les grands poètes deviennent naturallement, fatalement critiques. Je plains les poètes que guide le seul instinct; je les crois incomplètes». Dove nell’ultima frase meglio si può cogliere il senso piú legittimo e sintomatico della coscienza baudelairiana della radicale pertinenza della poetica al fare poetico e degli svolgimenti critici tesi, su quella apertura, a verificare le ragioni interne e storiche di una poesia nel suo individuarsi e costruirsi unitario sulla forza essenziale della ispirazione (il critico non può divenire poeta...), ma con tutto un lavoro complesso, con una collaborazione di tutta la personalità dello scrittore e della personale commutazione in direzione artistica di tutta la sua esperienza e del suo vivo sentimento della propria condizione storica che porta al di là delle stesse dichiarazioni sulla poetica da Poe a Valéry (su di una linea storica particolare postromantica, decadente simbolistica che spesso associa un’esasperazione dell’istintività e quasi automatismo o delirio dell’ispirazione al calcolo quasi matematico del lavoro espressivo e magari fino all’inconscience surveillée di Max Jacob) e piú profondamente invera l’affermazione antiromantica di Thomas Mann nel suo saggio Goethes Laufbahn als Schriftsteller: «Der durchaus unintelligente Dichter ist der Traum einer gewissen romantischen Naturvergötzung, er existiert nicht, der Begriff des Dichters selbst, der Natur und Geist in sich vereinigt, widerspricht seinem Dasein... Etwas ganz anderes ist es mit der Naivität der Unmittelbarkeit, dieser unentbehrlichen Bedingung aller Schöpfertums. Aber man braucht nicht zu sagen, und Goethe ist ein wundervolles Beispiel daffir, dass reinste Naivität und nächtigster Verstand Hand in Hand gehen Können».

A parte le precisazioni che andrebbero fatte sulle forme particolari della nozione e dell’uso della poetica nello sviluppo della letteratura europea nel secondo Ottocento e nel Novecento da parte degli scrittori e dei critici piú direttamente legati a quello sviluppo e alle sue fasi (in cui a volte l’esasperata attenzione alla poetica può essere anche il segno di una minore tensione fantastica e di una certa commistione saggistica critico-artistica sino a certo sperimentalismo filologico-linguistico piú recente), sta di fatto che – mentre le dichiarazioni di poetica da parte degli artisti si sono andate moltiplicando e approfondendo, sicché fu facile ad Anceschi munire i suoi Lirici nuovi di pertinenti autointerpretazioni di poetica – l’uso critico di tale nozione si è venuto estendendo (e magari sino all’abuso orecchiato ed esteriore) con una latitudine che, se non sarà senz’altro prova della sua assoluta validità, è pur segno dell’esistenza di un problema da tempo presente alla coscienza critica contemporanea. E questa pur calcolando le preclusioni autorevoli del De Sanctis o del Croce le ha potute considerare, a vario livello, insufficienti e parziali (o non conciliabili con i motivi piú profondi della loro lezione storica) e ha variamente (con oscillazioni e in connessione con posizioni culturali e metodiche diverse che pur meriterebbe studiare e precisare) sviluppato e applicato la nozione e l’uso della poetica come adatto proprio a favorire quella interpretazione piú intera e storicistica che, non obliterando la lezione desanctisiana e crociana e il loro richiamo energico alla fantasia e alla poesia tende variamente a farli vivere in termini di unità piú dialettica e intimamente storica: storicità della tradizione letteraria e del linguaggio poetico, come nel caso del Petrini e del suo sviluppo della «forma poetica» delollisiana, storicità della personalità poetica e della umanità-forma in cui struttura e poesia vivono in ben diverso rapporto che non nella immagine crociana del castello e dell’edera, nel caso importantissimo della metodologia del Russo a cui gli studi di poetica devono indubbiamente la piú energica impostazione e uno sviluppo in direzione storicistica. Donde un vasto irraggiarsi in campo postcrociano e noncrociano di studi di poetica: da quelli del Macchia e del Pizzorusso in letteratura francese, a quelli dell’Untersteiner e del Diano in letteratura greca, a quelli del Ragghianti sull’arte greca, a quelli miei e di miei scolari in letteratura italiana.

E il Flora, malgrado la sua sostanziale fedeltà crociana, sentiva l’esigenza di studiare non solo la poetica del madrigale e la poetica dell’avventuriero in Casanova (piú connesse a indagini fra costume e cultura letteraria meno contrastanti con le preclusioni crociane), ma anche la poetica del Leopardi. Ed egli rilevava in sede generale come la poetica sia «un rapporto con la concezione totale della vita» (e dunque la affermava come momento essenziale nel passaggio fra la Weltanschauung di un poeta e la sua poesia), mentre nella concreta ricostruzione critica di un poeta da parte del Cecchi si è potuto recentemente osservare una sua effettiva vicinanza allo studio di poetica nel suo giungere al riconoscimento della poesia attraverso «uno sforzo autentico di condizionamento storico, di valutazione di fatti culturali, di rapporti con tempi e con cose».

Mentre, con uno svariare legato a diverse origini e istanze, in un’accezione piú di storia del gusto possono operare da tempo studiosi come l’Anceschi, e, in una ricerca di poetica piú fortemente legata a condizioni sociali, possono, con varia forza e risultato convincente, pronunciarsi nel campo marxistico studi della poetica goldoniana, come nel caso del Dazzi e del Baratto, o tentativi di sostenere un piú sicuro «saper leggere» (Seroni) o ricostruzioni storico-critiche piú centrali del tipo del saggio leopardiano recentemente pubblicato dal Muscetta in questa rivista.

Né sarà da dimenticare che una convergente attenzione alla «mira artistica», al Kunstwollen riegliano, ma caratterizzato e non generico, alle «intenzioni» nel senso piú interno e meno intellettualistico di questa dubbia parola (non le buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno, ma la spinta operante di una creazione ispirata e consapevole), è rilevabile anche nelle posizioni e nel linguaggio critico o speculativo di un Dewey, come di uno Spitzer o di un Auerbach.

E certo in un esame particolare delle gradazioni e diversità della nozione e dell’uso critico della poetica risulterebbe la diversa tensione e il diverso impegno di studiosi che hanno variamente puntato sul carattere di tale studio come indagine nelle «retrovie» dei poeti, sul rapporto fra il pensiero estetico-critico e l’effettivo operare poetico nei singoli scrittori o nelle linee generali del gusto di un’epoca, solo sulla poetica esplicita e programmatica o solo sulla poetica come direzione presente nella costruzione artistica e stilistica di un poeta o di una scuola, sul suo valore di orientamento stilistico o di raccordo dell’arte con la cultura e con le condizioni di una società. Per me tale studio ha rappresentato e rappresenta (sin dai primi avvii del mio lavoro nell’ambito dell’insegnamento del Momigliano prima e poi soprattutto del Russo) una base piú centrale e piú intera e una prospettiva euristica piú complessa e articolata. Prospettiva legata anzitutto all’esigenza di una ricostituzione della storia letteraria nell’articolata ricostruzione delle varie epoche letterarie e delle varie personalità creative che, senza ricadere in forme deterministiche o nella impostazione di nessi puramente contenutistici o puramente stilistici, miri a reagire e al monografismo monadistico di tipo crociano e all’isolamento di immobili nuclei poetici senza svolgimento interno e senza quel complesso ed effettivo dialogo con il tempo storico ed ideale nelle sue dimensioni artistiche e culturali, che nella poetica dei singoli e delle epoche artistiche e storiche può venir tanto piú chiaramente evidenziato e fatto valere (con l’inerente avvertimento della complessità dell’esperienza artistica nella sua peculiarità e nella sua viva implicazione di condizioni vitali, personali e storiche) nell’operazione storico-critica e in un giudizio concreto sulla realtà poetica che parta appunto dalla comprensione delle condizioni e degli orientamenti di questa, delle particolari forme con cui la tensione alla poesia si manifesta in determinati momenti della storia umana e in determinate esperienze personali.

Concepita cosí la poetica non come elemento intellettualistico sovrapposto dall’esterno a infrangere l’unità della fantasia creativa, ma come attiva coscienza che il poeta ha di questa e del suo impiego costruttivo nella prefigurazione dell’opera cui tende, come atto di attiva coscienza dell’agire poetico, della sua forza e natura ispirativa, della sua peculiarità e delle sue generali implicazioni, come momento di confluenza fra il Kunstwollen precisato e caratterizzato dell’artista, il suo rigore artistico con cui tende ad attuare il suo lavoro espressivo, a realizzare la sua ispirazione e la disposizione artistica in cui egli rivede la propria esperienza totale, si apre la possibilità di uno studio storico-critico che – partendo dalle dichiarazioni di poetica di un artista o di un’epoca, ma insieme dal rilievo delle effettive direzioni di poetica vive in uno svolgimento personale o nella tensione operativa di un’epoca e di una corrente e civiltà letteraria – introduca anzitutto il giudizio e la interpretazione delle opere nella comprensione delle particolari direzioni in cui queste sono state impostate e promosse. Né con ciò si aderirà a certi ingenui canoni del Pepper secondo cui i critici sarebbero tenuti a seguire per ogni età i giudizi estetici di quell’età o alla pur significativa affermazione giovanile del Cecchi che ogni poeta richieda una particolare estetica; non si cadrà in un relativismo incapace di giudizio e di orientamento e sordo alla realtà decisiva del testo realizzato, ma questo verrà inteso e il giudizio verrà preparato e commisurato attraverso la nostra comprensione del modo in cui la tensione poetica si è configurata in determinate situazioni generali e personali con particolari problemi tecnici, con particolari forme di linguaggio, con particolari ragioni e condizioni letterarie e non letterarie.

Ché la nozione di poetica, mentre ovviamente presuppone una tensione poetica e ispirata senza di cui la poetica non avrebbe ragione di manifestarsi neppure nelle forme piú velleitarie e rozze, implica e sollecita una piú generale prospettiva storico-critica consapevole della complessità dei fatti artistici e riconduce (sulla base di una visione della vita piú coerente ad un vivo rapporto storia-persone-opere che non a quella di una storia dello spirito come sola realtà di opere) ad una nozione dell’arte viva nei suoi nessi con tutta la storia e con tutta la vita, ad una nozione che rifiuta insieme l’equivoco iperuranio immobile di una poesia categoriale, platonica, astorica e l’annegamento della poesia in una storia generale sociale, politica, culturale, cui la presenza dell’arte sia un’aggiunta inessenziale o un ornamento decorativo: né pezzo di cielo caduto sulla terra, secondo una frase di Flaubert, né puro rispecchiamento della realtà già esistente e semplice nuova edizione di valori già correnti in altri campi di esperienza, per dirla con Dewey. Né fuori della storia, né dopo la storia, ma viva e valida dentro la storia di cui effettivamente fa parte proprio in quanto, connessa vitalmente con veri problemi concreti e storicamente vivi, ha una sua autentica spinta ad una propria peculiare consistenza, ha sue tecniche, sue tradizioni, suoi problemi specifici. Di cui per altro lo studio di poetica mostra la continua osmosi con le dimensioni e le esperienze culturali, etiche, sociali, politiche, e con la meditazione estetica e l’esercizio critico nei quali sarà sempre possibile (in una rappresentazione di tendenze e di esigenze peculiari e generali) ritrovare e un implicito aspetto di poetica (ogni critico, ogni pensatore estetico ha pure una sua implicita poetica) e il nesso con posizioni e problemi generali e particolari di ideologia, di cultura, di socialità, di politica.

E se lo studio di poetica (sia nel caso di un’epoca e di un movimento sia in quello di un singolo scrittore) mostra la sua utilità critica e storiografica anzitutto nella considerazione delle esplicite dichiarazioni e dei piú diretti documenti di poetica a situare storicamente un’esperienza poetica, ad introdurre nell’orientamento di una tensione poetica e delle sue ragioni storiche, una piú complessa utilizzazione di tale strumento critico non si limiterà ad individuare la funzione della poetica come un primum fermo e immutabile, un momento di chiarificazione interna del poeta non piú soggetto al vivo premere della poesia e alla dinamicità dello svolgimento della personalità nelle sue situazioni vitali e culturali. In modo che si riducono anche tanto piú i margini di rischio di una rigida sovrapposizione della poetica esplicita e programmatica alla intera realtà poetica, che non tenga conto del ricambio e dell’interna radicale collaborazione fra poetica e poesia, fra poetica esplicita e poetica in atto; e si riducono insieme i margini di rischio di una rigida sovrapposizione della poetica generale di un’epoca ai caratteri originali e all’originale maniera con cui il singolo poeta, anche accettando motivi di poetica del suo tempo, effettivamente li rinnova e li trasforma personalmente.

Anche la poetica va intesa e applicata entro il concreto dinamismo della personalità e della storia, come può esemplificarsi anche in casi in cui il rilievo e lo spicco di una dichiarazione esplicita può sembrare ridurre la poetica (con tutte le sue implicite o minori formulazioni e precisazioni da parte del critico) all’applicazione poetica di un programma e di una presa di coscienza fondamentale, da parte del poeta, della sua natura, delle sue mete, del suo dialogo storico.

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Si consideri, ad esempio, il caso del Foscolo e del Commento alla Chioma di Berenice, in cui la critica novecentesca ha individuato l’eccezionale importanza di una personale poetica (la poetica del mirabile e del passionato). Indubbiamente in quel fondamentale documento il Foscolo (fra i precedenti della sua opera anteriore e nuova tensione ad una poesia piú ambiziosa e complessa) attua una formidabile presa di coscienza delle forze della sua ispirazione, del suo animo, della sua cultura, e fa confluire in una prefigurazione del proprio operare futuro, del suo concreto Kunstwollen, tutte le sue chiarite tendenze fantastiche e gli elementi etico-politici, culturali e piú peculiarmente letterari della sua esperienza compresenti sia nella polemica e nel confronto di propri ideali con le tendenze letterarie del suo tempo e con le ragioni generali che le motivano, sia nella proposta di una nuova poetica di valore personale, commisurata ad una diagnosi della letteratura e della situazione culturale italiana (con le sue implicazioni etico-politiche). Polemica con il didascalismo razionalistico illuministico (linguisticamente quodlibetario e privo di autentica tensione poetica), con il neoclassicismo illustrativo (vuoto suono e lusso letterario e irresponsabilità del poeta nei confronti della civiltà in cui vive anzitutto politicamente), con il preromanticismo di moda e di importazione, privo della distanza poetico-mitica e mal inseribile in una ripresa di tradizione e di letteratura nazionale; e recupero di antecedenti settecenteschi (Vico, Gravina, Conti) atti a promuovere e rafforzare con ragioni estetiche e filosofiche la tensione foscoliana ad un nuovo didascalismo mitico romantico-neoclassico di cui gli elementi del «passionato» e del «mirabile» sintetizzano il complesso convergere delle posizioni ideologiche e letterarie del Foscolo, delle sue esperienze poetiche e del suo mondo sentimentale e poetico in una direzione artistica maturata in un momento di eccezionale consapevolezza interiore e nella pienezza della sua forza fantastica.

Una direzione ricchissima di implicazioni e di avvii, come di svolgimenti delle precedenti esperienze anche in sede di linguaggio e di tecnica (la tensione mirabile-passionata, neoclassica-romantica, personale e storica dell’«illacrimata sepoltura», il passaggio dall’exabrupto drammatico-lirico all’invocazione-evocazione innografica e mitica dai sonetti minori ai maggiori, l’albeggiare del chiaroscuro come corrispettivo di una profonda sofferenza personale, storica, esistenziale e di una volontà di nuova vita poetica e culturale nella risonanza profonda e vibrante di un contrasto vitale), ma tale che sarebbe improprio considerare la successiva attività poetica foscoliana come una semplice applicazione di quella poetica, come una dosatura diversa del mirabile e del passionato.

Mentre in effetti quella si svolgerà con tutta la sua potenziale ricchezza entro le situazioni concrete del poeta, nel continuo fecondo ricambio della sua meditazione e della sua ispirazione, fra nuovi documenti di poetica e lo stimolo del suo pensiero politico, storico, letterario, alla sua concreta tensione e realizzazione poetica. Come avviene nei Sepolcri in cui poetica e poesia si muovono e si arricchiscono sino al grande finale mitico in una dinamica che supera la prima impostazione elegiaca e realizza a livello piú alto (con una unità in movimento ben diversa dall’ipotizzata successione di liriche autonome) l’esigenza foscoliana di una poesia personale e storica, fondatrice e salvatrice di vita e di storia proprio in quella dolorosa coscienza della caducità dell’uomo, dell’universo, che profondamente giustifica il pieno sviluppo del procedimento chiaroscurale foscoliano. Come avviene poi nel periodo creativo delle Grazie in cui un primo tono piú estetistico e «grazioso», piú apertamente neoclassico e pittorico, viene intimamente corretto dalla coscienza della sua insufficienza nell’impeto cupo della Ricciarda (drammaticità prima troppo facilmente elusa), nella piú salda e sottile misura interiore e stilistica della versione sterniano-didimea e nell’accordo fra la situazione personale propizia (la civiltà di Bellosguardo, e il suo rapporto fra solitudine e socievolezza) e un piú alto cerchio di distanza poetica in cui le passioni e le sofferte vicende storiche fluiscono con il calore di fiamma lontana e non perciò meno reale e profonda. Gli elementi della poetica dell’armonia e dell’«arcana armoniosa melodia pittrice» si precisano in una notazione piú segreta ed intima e si traducono nell’arte di arcana armonia limpidamente vibrante di venature elegiache del poema incompiuto; e le esigenze foscoliane di una poesia fondatrice di civiltà si rinnovano e si commutano in relazione al muoversi complesso dell’animo e dell’esperienza foscoliana in precisi e storici motivi (sul fondo cupo del crollo napoleonico) di rifiuto della fraterna strage, di distinzione fra guerra di difesa e di offesa, della necessità di un assiduo ingentilimento delle passioni ferine degli uomini con implicazioni culturali e corrispettivi stilistici che portano assai lontano dalle posizioni dei Sepolcri. Non dunque un cammino rappresentabile come pura applicazione di una poetica immobile una volta che sia stata chiarita ed enunciata, ma, sulla direzione fondamentale di una via riconosciuta come centrale, un vivo svolgimento di poetica e di poesia entro la storia dinamica della personalità foscoliana concretamente e dialetticamente condizionata, nelle sue interne ragioni, dall’esperienza del proprio tempo in tutte le sue dimensioni effettive.

E proprio guardando al Foscolo, anche senza accogliere interamente la sua autointerpretazione in chiave politica, sarà chiaro che proprio lo studio storico-critico basato sull’attenzione alla poetica porta a configurare la rappresentazione critica della sua personalità e della sua opera non solo in un interno e generale rapporto organico fra queste e la sua intera esperienza, ma in nessi precisi (e non perciò deterministici) fra tutto ciò e la storia del suo tempo, a vedere insomma, al reagente della poetica, il modo concreto e il coerente svolgimento con cui la sua personalità si è formata e affermata traducendo in direzione artistica le sue vive esperienze di letterato e di uomo.

Cosí, mentre la sua poetica si collega vitalmente a tutta la sua Weltanschauung, al suo pensiero politico, alla sua esperienza e sofferenza storica, alla sua complessa cultura e attraverso queste ai problemi e alle condizioni della sua epoca irrequieta e feconda, essa si alimenta di un vivo dialogo con le esperienze letterarie e con le poetiche generali e personali del suo tempo. E come veramente intendere e valutare tutta la ricchezza e la risposta personale dell’Ortis senza inserirlo nella tensione sentimentale culturale poetica della crisi dell’illuminismo e del preromanticismo, senza conoscere la problematica politica che ne sottende insieme alla problematica filosofica (crisi dei valori illuministici e contrasto fra accettazione e insufficienza del meccanicismo e materialismo settecentesco) la drammaticità personale e storica, senza conoscere la situazione letteraria di fine secolo fra gli ultimi bagliori dell’edonismo classicistico-rococò, le velleità di poesia grandiosa e sublime del preromanticismo e del neoclassicismo di tono eroico e visionario, i problemi del romanzo illuministico e del romanzo preromantico autobiografico e sentimentale? Come intenderne senza di ciò la novità e storicità del linguaggio e della tecnica lirico-eloquente narrativa? Come comprendere senza il presupposto alfieriano la nuova concezione foscoliana del letterato e sin componenti della tecnica e del ritmo del nuovo Ortis e dei sonetti minori? Non che con ciò si spieghi e si determini la poesia foscoliana, ma certo si intende meglio la sua situazione concreta, la sua vita nel pieno di una storia in movimento, quanto piú se ne avverta lo svolgimento, il nascere e l’affermarsi originalmente nell’attrito fecondo di esperienze o di «occasioni» senza le quali la poesia non avrebbe avuto ragione e modo di estrinsecarsi e di esistere.

E certo sin la «illacrimata sepoltura» del sonetto A Zacinto rivelerà tutto il suo valore e la sua pienezza di vibrazione e di perfezione se il critico potrà ridispiegarne la tensione di poetica e di poesia che in quella si è risolta: lo sforzo foscoliano di un mito personale che recupera e supera un lungo impegno di fantasia e di linguaggio (con tutto ciò che implicano di dolente meditazione sulla sorte degli uomini, sul valore del sentimento, e della persona) della poesia sepolcrale preromantica e della tensione poetica e figurativa del neoclassicismo al supremo nitore dell’immagine e dell’espressione, in un mito assoluto che ha riassorbito la gocciolante sentimentalità preromantica e ha risolto il decorativo neoclassico con la forza nuova di un linguaggio creativo e tradizionale sino al calcolo e all’uso rinverginato di una forma latina (illacrimatus), in un sinolo di tema, immagine e suono di insuperabile originalità e perfezione.

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Lungi da una mortificazione della poesia, un simile studio storico-critico farà tanto piú risaltare la sua novità e originalità che si afferma in un vivo intrico di tensioni e di esigenze meglio che in una solitudine astorica, in un Olimpo di archetipi immobili e celesti: con l’inerente grosso problema di una speciale formazione del valore poetico, di una potenzialità personale che si sviluppa e si afferma non per un intervento celeste e inconsapevole rispetto a colui che la concreta e ha una sua storia, un suo svolgimento dinamico per quanto profonda e nuova e irrazionale essa sia, un suo effettivo esistere entro uno svolgimento della personalità e della poetica.

Sicché partendo dai caratteri rilevati nella poetica, dalla sua evidenziazione della storicità generale e peculiare dell’arte, del rapporto personalità-storia, tanto piú si reagisce alla riduzione contenutistica o formalistica dell’arte, all’isolamento dell’opera dalla viva storia dinamica di tutta la personalità e di questa dai suoi rapporti con la storia e con le tensioni poetiche in essa operanti. E tanto piú risulta la possibilità di una ricostituzione della storia letteraria che non sia né semplice storia di forme stilistiche, né semplice storia di contenuti solo evidenziati nell’arte, né «serie» di personalità o di opere monadisticamente solitarie, ma storia di rapporti e di nessi entro cui si svolgono personalità e opere in cui la varia tensione di un’epoca diventa, dove diventa, valore. Una storia dinamica e pur non esasperatamente irrequieta e priva di consolidamento di realizzazioni artistiche, che il critico dovrà effettivamente ricostruire e far valere in una prospettiva la cui ardua e tormentosa ambizione sarebbe quella di giungere a cogliere l’estrema concretezza della realizzazione poetica, nei suoi modi, nel suo linguaggio, nelle sue caratteristiche personali, attraverso la ricostruzione di tutto il processo artistico particolare e della tensione fra poetica e poesia, mai separati dalle loro ragioni interne e storiche.

Sicché già nel caso di un singolo autore la critica sarà insieme storiografia e nel caso della delineazione di un’epoca letteraria l’operazione storiografica sarà sempre necessariamente disposta alla valutazione e al giudizio concreto, al riconoscimento della autenticità poetica là dove essa si afferma e al riconoscimento della tensione alla poesia e delle sue storiche forme e della sua pertinenza ad una storia letteraria che non sia solo rappresentazione dei grandi poeti, ma graduata e precisata rappresentazione dell’esteticità delle varie epoche e dei loro diversi valori realizzati e del rapporto fra questi e la tensione poetica e i loro corrispettivi culturali e storici, e il loro significato ed envergure nella vita di una società e civiltà storica. Ché, se è discutibile la proposizione del Dilthey secondo cui in ogni epoca è viva la vera poesia, sarà pur da affermare che in ogni epoca vive una tensione alla poesia e che essa non può essere relegata nella storia del costume e della cultura. Cosí come ho forti dubbi sulla assoluta applicabilità della separazione della poesia e della letteratura come regni incomunicabili (donde i tentativi del Fubini di un raccordo attraverso la poeticità del linguaggio) e sulla inutilità di una considerazione effettiva dei minori, delle personalità che non possedendo una intera forza poetica pur collaborano, con varia efficacia, alla tensione poetica, al formarsi di poetiche e di tradizioni letterarie, e vivono una volontà di poesia e il suo rapporto con le esigenze culturali del loro tempo.

Malintesa pietas democratica che voglia assurdamente trovare valore dove non c’è? o malinteso storicismo che voglia magari accettare i giudizi entusiastici dei contemporanei su autori che la nostra coscienza ed esperienza critica han rifiutato? Non si tratta di ciò, ma, a parte il fatto che l’applicazione del canone di poesia e letteratura ha finito per scartare dal computo dei poeti autori che un accostamento piú intenso ci fa riconoscere come tali (valga per tutti il caso del Goldoni e del Molière nel giudizio negativo crociano), in una storia letteraria che miri a risalire ai grandi fatti poetici attraverso la piena considerazione delle poetiche e della tensione alla poesia che variamente e con varia forza vive nei diversi periodi storici, anche i minori, gli scrittori dotati di disposizioni poetiche, anche se mancanti del dono profondo della grande poesia, hanno pure un loro posto e una loro funzione: costituiscono la trama di un gusto operante, anticipano ed offrono temi, moduli stilistici, forme di linguaggio, dispongono in direzione estetica elementi vivi della vita sociale politica culturale, partecipano al dialogo delle poetiche e alla costituzione di linee tensive entro una storia dinamica e dialettica, articolata e graduata che voglia recuperare al massimo la realtà di un’epoca nella sua viva complessità problematica e rifiuti la genericità di una semplice evocazione di «climi» spirituali e lo sfondo lontano e sbiadito di una storia generale sostanzialmente indifferente alla comprensione dei veri poeti. Non solo va considerato (e magari per verificare gli errori e la velleitarietà di un’epoca) ciò che certi autori ed opere rappresentarono per i loro contemporanei come immagine e stimolo di poesia (il caso eccezionale dell’Ossian cesarottiano cosí ricco del resto di avvii e suggestioni che non possono risolversi in pura abilità nel traduttore italiano), e il peso effettivo anche in sede poetica di momenti e accenti poetici incapaci di una salda organicità totale; ma tutto ciò va inserito in una storia letteraria che sia storia delle poetiche e della tensione fra poetiche e poesia, e dei valori poetici effettivi che vi si affermano.

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Nella ricostituzione della storia letteraria, a cui già in periodo crociano (e al di là delle operazioni di storiografia crociana per monografie saldate da rapide evocazioni di climi e di epoche, di cui è esempio particolare la storia del Flora pur con la sua ricchezza stimolante di osservazioni e recuperi antologici dei minori; il caso del Momigliano è piú complesso e singolare e tutt’altro che privo di certi quadri d’insieme folti e criticamente suggestivi) da varie parti si tese con proposte e parziali realizzazioni, l’orientamento storico-critico basato sullo studio delle poetiche si inserisce in un punto centrale della discussione in atto e del quadro di quei tentativi che mirano a superare la risoluzione crociana in storia per monografie, magari cercando una continuità con la lezione crociana nei suoi motivi piú atti a rompere dall’interno del sistema l’incomunicabilità del fatto poetico con le altre dimensioni della vita umana: come ha fatto recentemente il Sapegno nel suo interessante ed equilibrato saggio Prospettive della storiografia letteraria, utilizzando una frase del Croce svolta in accezione gramsciana: «la poesia non genera poesia, come la filosofia non genera filosofia, né l’azione azione, senza che ciascuna di esse ripassi attraverso tutte le altre forme, perché la nuova azione ha a sua necessaria condizione nuova fantasia e nuovi concetti; la fantasia, nuova filosofia, nuovi fatti e nuove azioni; la nuova poesia, nuovi pensieri e nuove azioni, e pertanto nuovo sentire». Anche se a ben guardare, questa frase, che deriva dalla posizione crociana della circolarità dello spirito, avvia piuttosto un discorso sulla duttilità e coordinazione interna delle forme dello spirito e non riconduce necessariamente, al di là di nessi generali dello spirito in una storia generale o nell’interno del singolo poeta, ad una articolata ricostruzione di nessi precisi e di rapporti fra gli scrittori e fra questi e la storia letteraria e non letteraria della loro epoca, come può meglio essere avviato in una retta utilizzazione degli studi di poetica.

Mentre le piú recenti tendenze di tipo stilistico-linguistico, che, malgrado punte assolutamente astoriche, pur implicano importanti esigenze di storicità (storicità delle tradizioni letterarie e linguistiche), appaiono (quando poi non se ne tentino giustapposizioni piuttosto eclettiche e poco convincenti con posizioni ideologiche-sociologiche il cui corrispettivo in sede artistica può essere il dubbio caso della Vita violenta del Pasolini) singolarmente parziali e insufficienti rispetto alle esigenze di una ricostruzione storico-critica che, proprio misurando sul momento chiarificatore della poetica la complessità e la organicità del fatto artistico, la natura peculiare e generale della storia letteraria, non può accettare né una storicità solo letteraria (tradizione di stile, di moduli e temi letterari, dialogo di poeti-letterati e sperimentatori di forme linguistiche e stilistiche), né d’altra parte una storicità sostanzialmente contenutistica il cui rischio supremo è quello di perdere la peculiarità del fatto artistico, la novità dialettica della poesia riducendola a rispecchiamento e documento della realtà sociale, non avvertendone la natura di forza effettiva nella storia e mai dopo la storia.

Pur ben consapevole dell’altezza di tono, delle genuine ispirazioni critiche e della complessità di cultura e di tecnica che nella direzione stilistico-linguistica si son pronunciate e sviluppate (e si pensi al grande valore di una nuova attenzione alla storia della lingua nel suo elemento di specifica e generale storicità) e ben consapevole di ciò che essa ha portato nel dialogo critico in atto e delle possibilità di assunzione non eclettica di molte sue istanze anche da parte di chi sia fuori della sua linea precisa, ritengo di dovere esprimere un chiaro e fondamentale dissenso rispetto ad una critica che implica alla fine, nelle sue tendenze estreme, una nozione solo specialistica e tecnicistica e della critica e della letteratura, e risolve questa e la sua storia in un’aristocratica e raffinata discussione di tecnici della parola e dello stile senza comunicazione interna ed esterna con la vita e la cultura in cui la parola e lo stile trovano la loro necessità e le loro ragioni vitali e distinguono (pur nella similarità di necessità tecniche e di esercizio elaborativo) la parola profonda dei poeti da quella di puri sperimentatori lontani dalla vita e dalla poesia.

Giustissimo considerare e utilizzare al massimo nella storia del singolo autore e della letteratura la dimensione letteraria e tecnica (che è anche un elemento di storicità peculiare del fatto artistico), ma inaccettabile ridurre la complessa storia del poeta e della letteratura a questa dimensione. E, se questa istanza antiromantica (appoggiata del resto da vari momenti della metodologia e piú dell’esercizio crociano) è evidentemente fondamentale nella stessa impostazione dello studio di poetica (e storicamente ha rappresentato una validissima reazione al puro psicologismo o culturalismo di certa critica estetica e storicistica), essa, nella sua saturazione e pretesa di totalità, rivela la sua unilateralità e la sua essenziale diversità da una interpretazione storico-critica che parta dal vivo rapporto radicale e concreto fra persona e storia, fra arte e vita.

E la stessa storicità che io vi ravviso si fa realmente, nella sua unilateralità, astorica ed astratta promovendo la costruzione di moduli di continuità che, nella loro riduzione ad absurdum, rimandano a mitiche origini i vivi contatti fra letteratura e realtà e trasformano la tradizione in un enorme vocabolario tematico-stilistico tutto e sempre disposto al lavoro letterario dei nuovi scrittori.

Perché, ad esempio, considerare i poeti trecenteschi perugini solo come applicatori e rinnovatori letterari di moduli e temi coridoneschi disconoscendo il fatto storicamente accertabile che quella tematica aveva un suo fondamento reale in aspetti della società perugina del tempo e nella cerchia di quei borghesi e notai la cui spregiudicatezza realistica si rivela coerentemente nel descrittivismo paesistico e nel linguaggio alimentato di forme locali e nel raccordo con una visione antiascetica collegata alla pienezza e ricchezza di vita del comune perugino? Perché ridurre il petrarchismo cinquecentesco, pur nella sua fortissima letterarietà, solo ad una ripresa e variazione di stilemi petrarcheschi senza avvertire le sue ragioni personali e generali di carattere culturale e storico? Mentre dovrebbe esser chiaro che (proprio nello stesso svolgimento dialettico della critica) la posizione antiromantica che valorizzò già nel Croce la realtà pedagogica della tradizione petrarchistica nel Cinquecento richiede non la sua estremizzazione in una storia di pure variazioni di stilemi su di una tematica fissa e ripetitoria, ma un approfondimento delle ragioni storiche, culturali, personali di esperienza e di complessa poetica (magari per una nuova limitazione e distinzione del fenomeno e nel fenomeno), una verifica della portata e del significato di quella scuola entro la civiltà rinascimentale e quindi anche le ragioni della sua crisi entro il mutamento non solo del gusto, ma di tutta la direzione della storia dell’ultimo Cinquecento.

Ché altrimenti sarebbe anche impossibile comprendere il perché (e il come è indissociabile dal perché) del suo tramontare e del sorgere di nuove poetiche e di nuove forme letterarie e stilistiche, nell’incontro di nuove concrete situazioni e di nuove ispirazioni e tensioni poetiche. La letteratura va per la sua strada o galleria chiusa e la storia segue le sue strade in una sostanziale reciproca indifferenza (verificabile viceversa anche in quei manuali storici che relegano l’esperienza artistica in un capitoletto a parte senza calcolarne la forza nella storia stessa che vogliono presentare).

E che poi lo scrittore sia un letterato e abbia un rapporto specifico con la letteratura del passato e con le sue forme è fatto fortemente evidenziato e concretamente avvalorato proprio negli studi di poetica, ma esso può, se isolato e ingigantito, diventar sin troppo ovvio svolgersi in una vera e propria tautologia improduttiva e fuorviante, e importare una inaccettabile riduzione della poesia a tecnicismo: donde (una volta svuotata la poesia dei suoi caratteri personali e storici) la possibilità di descrizioni e diagrammi livellatori e astorici.

Come mi pare assolutamente improduttiva e fuorviante una storia letteraria concepita come pura e semplice Stilgeschichte che finisce per lo piú (complicata magari da una generica e sommaria Geistesgeschichte) per creare unità «epocali» del tutto generiche e falsificanti: quale, per citare un caso estremo, è lo hatzfeldiano Rokoko als Epochenstil, in cui Marivaux, Voltaire, Diderot, Rousseau pertengono ugualmente ad uno stesso Rokokomensch e Rokokostil e le profonde peculiarità delle poetiche e delle personalità dell’illuminismo e del preromanticismo si risolvono nell’indistinta unità «rococò».

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Ma, d’altra parte, a tale rischio non si reagisce sostituendogli quello di una storicizzazione di tipo sociologico, pur tenendo conto naturalmente di importanti sforzi di superare il puro sociologismo, specie sulla base dell’esperienza gramsciana resa tanto piú duttile e articolata dal fecondo dialogo di Gramsci con la tradizione desanctisiana e con lo stesso metodo crociano. Ché, con tutto lo stimolante richiamo che implicano ad un concreto e capillare approfondimento dei nessi fra poesia e storia (al di là di forme piú generiche di Geistesgeschichte e di vago culturalismo, in relazione al vasto rinnovamento storiografico di storicismo concreto che spesso avvicina assai studiosi di diretta ascendenza marxista e studiosi di impostazione postcrociana), la critica e la storiografia letteraria che si qualificano marxiste, nelle loro inclinazioni finora piú pronunciate, portano in sé una forte tendenza ad annullare o a ridurre la novità ed originalità dell’arte, la sua intima forza dialettica e rivoluzionaria, per cui il Dante cantore della Firenze antica e di una situazione storicamente superata dalla crisi trecentesca comunale crea in quel mito della sua fede umana e poetica una realtà nuova portatrice di valori effettivamente nuovi, e il Verga conservatore in politica collabora anche alla rivelazione della realtà sociale siciliana meglio che in una forma di protesta e denuncia esplicita e direttamente inserita negli atteggiamenti progressivi del suo tempo.

Apparirà cosí insufficiente anzitutto una storia letteraria che voglia studiare (come dice il Lukács nella sua Breve storia della letteratura tedesca) «gli avvenimenti storici nel loro rispecchiamento nelle opere letterarie delle posizioni che esse assumono verso di essi»; ché poi lo stesso critico ben avverte il pericolo insito nello studiare gli autori come «rappresentanti anche se cosí medianti del tempo» quando avverte: «Naturalmente ogni scrittore, specie se è veramente grande, è – nella propria creazione – piú ricco e multiforme della tendenza letteraria o sociale che rappresenta. Cosí quando facciamo ricorso a nomi famosi, o semplicemente noti, per lumeggiare certi indirizzi, dobbiamo in ogni caso renderci conto che tale procedimento implica inevitabilmente una certa unilateralità». Unilateralità che non vale avvertire se non si intenda e concretamente si faccia valere nella interpretazione storico-critica il fatto fondamentale che non basta studiare i poeti come un dopo almeno ideale rispetto a strutture e tendenze di loro non bisognose e che una funzione documentaria della letteratura e dell’arte spenge alla fine il loro valore di vero «documento» storico in quanto se ne svaluta le peculiarità di esperienza e di direzione, la forza di interpretazione originale e di sollecitazione dei moti spesso oscuri e fermentanti di una situazione storica sociale, politica, culturale: interpretazione solo effettiva ed autentica e storicamente valida se artisticamente orientata, se radicalmente necessaria nell’ispirazione e nella poetica dell’autore.

E proprio quando si propone la meta ambiziosa di una storicizzazione integrale nel campo artistico sarà ben da chiarire che tale integralità presuppone anzitutto l’accertamento che l’opera o la personalità studiata abbia in sé forza e direzione artistica. Perché altrimenti la desiderata integralità scadrà in un’effettiva parzialità e insufficienza trascurando il fatto fondamentale che l’arte è storia, e interviene nella storia come forza autentica e non come illustrazione e documento, solo in quanto commuta originalmente con una sua forma originale forze ed esperienze vitali e storiche in tensione artistica e in opere artistiche. Altrimenti, ripeto, si priverà la storia stessa di un’esperienza e di una forza ad essa essenziale, e per la cui presenza effettiva, non ripetitoria, insieme ad altre forze ed esperienze, essa è veramente storia.

Con ciò non si esclude affatto la pertinenza e la necessità di una interpretazione storica dei fenomeni letterari e delle personalità poetiche articolata entro le condizioni della situazione sociale e politica (e nello studio di poetica come io l’intendo è implicita tale disposizione ad una storicizzazione completa e non solo letteraria), ma essa rimanda ad una esigenza storico-critica piú profonda e complessa che presuppone una visione della storia piú problematica e dialettica anche nei rapporti fra le sue forze ed esperienze costitutive e nel caso specifico richiede una disposizione storicistica che non sovrapponga al passato una poetica polemica di puri militanti politici, richiede un senso vivo delle possibilità diverse della poesia e dei suoi rapporti non univoci con la realtà storica, dei modi con cui anche in una posizione politicamente e socialmente reazionaria può nascere poesia.

Troppo facile (e c’è sempre da diffidare degli schemi troppo facili e troppo facilmente applicabili) risolvere la storia della letteratura solo in storia di organizzazioni di cultura, di funzioni puramente sociali e politiche dei poeti: per non dire di ricostruzioni tutte politiche che estraggono un elemento (variamente vivo e specifico dell’esperienza e situazione di uno scrittore o di una corrente letteraria) e lo rendono arbitrariamente dominante e fondamentale trascurando i modi in cui quell’elemento poté entrare nella poetica dello scrittore e alimentarne l’impegno personale e storico purché effettivamente commutato nella esigenza di un’esperienza artistica e non divenuto invece prevaricante e pesante limite della fantasia e del lavoro artistico.

Voglio dire che, se allo studio storico-critico è essenziale definire concretamente (donde l’ausilio per me indispensabile di una conoscenza storica non manualistica e generica da parte dello stesso critico della letteratura) la situazione del poeta nel proprio tempo e nella propria società, e della sua coscienza della propria posizione in quelli, della profondità e qualità del suo impegno nella realtà storica, nel suo accordo o disaccordo con le direzioni vive del tempo concreto in cui vive, tutto ciò sarà da rivedere entro la sua effettiva esperienza e poetica, entro l’effettiva tensione poetica che nasce in quell’accordo o disaccordo e, oltretutto (ciò che sarebbe ovvio, ma che spesso viene come realmente dimenticato per insufficienza o per tendenziosità), nell’accertamento sicuro e non partigiano della loro realtà e configurazione precisa, in una ricostruzione della storia non schematica, non precostituita, anche se inevitabilmente orientata e non qualunquistica.

Ché occorrerà anzitutto richiedere alla storico letterario come allo storico tout court (che sarà sempre poi storico di un campo specifico) un forte senso del passato nella sua viva problematicità, nella sua complessa natura di nascita del futuro, tanto diversa da uno svolgimento rettilineo: e spesso nelle sue pieghe ed ingorghi si annidano pure problemi fecondi e si instaura tensione culturale e poetica, per non dire della particolare complessità che la storia letteraria comporta nella dialettica cultura-poesia, per la difficoltà di ridurla a storia di documenti e di fatti, di contenuti giudicabili senza avvertirne e misurarne la loro peculiare natura e risoluzione mediata nella novità e originalità dell’arte. Richiamo ben doveroso di fronte ad interpretazioni che deducono il giudizio su fenomeni e personalità artistiche dalla semplice immediata verifica dell’accordo o disaccordo di quelle con il moto progressivo, o ritenuto tale, della storia misurata soprattutto nelle sue dimensioni ideologico-politiche e sociali. Sarà giusto individuare il crescente disaccordo dell’Alfieri con la linea illuministica e sarà possibile vedere in questo una linea di involuzione ideale e poetica che condurrebbe dal momento positivo della Tirannide e delle tragedie a quello dell’ultimo periodo reazionario e nazionalistico. Ma come chiudere gli occhi di fronte al fatto che in quella reazione si esprimevano anche fortemente elementi preromantici collegati all’effettiva crisi e insufficienza dell’illuminismo (le cui istanze immortali sarebbero poi risorte con nuova forza e complessità in vari aspetti della romantica civiltà liberaldemocratica e nell’arricchimento della dialettica con tutte le sue implicazioni rivoluzionarie) e che – mentre le sue intuizioni preromantiche e antilluministiche (nutrite da una conoscenza dello stesso illuminismo e dei suoi elementi piú intimi e profondi) partecipano alla vita tormentata e feconda dell’ultimo Settecento, entro un diagramma tanto piú vero e storico di quello che non sarebbe un semplice passaggio illuminismo-romanticismo nei loro elementi piú congeniali e rettilinei – la sua stessa grande poesia (che d’altra parte non per equivoco stimolò un senso profondo della libertà e nuova grande poesia) nasce, ben piú che da motivi illuministici potenziati individualisticamente, proprio da quella crisi profonda sofferta sino alle sue implicazioni esistenziali? Sicché, delineato il disaccordo dell’Alfieri con il tempo nella sua dimensione illuministica, accertati gli aspetti di reazione e i germi velenosi di certo estremismo nazionalistico e la loro traduzione in opere meno sicure come il Misogallo, resta pur sempre al critico da intendere insieme e la partecipazione dell’Alfieri a un tempo piú profondo nei suoi fermenti piú segreti e inespressi (e dunque la sua attualità storica) e il raccordo effettivo fra tale posizione e la sua grande poesia.

Cosí come (per accennare ad aspetti di uno storicismo ingenuo che non ha nulla a che fare con il fronte critico di cui qui si parla, ma che denuncia comunque una significativa insufficienza di comprensione storico-critica da valutare in relazione alle esigenze di uno storicismo piú attento alle effettive relazioni fra storia e poesia) proprio nei riguardi dell’Alfieri (e poi del Foscolo e del Leopardi) poté affacciarsi una valutazione limitativa in rapporto alle deficienze della cultura sua (e dei poeti ricordati) nella sua e loro ignoranza o incomprensione del nascente idealismo tedesco e della dialettica, nel suo e loro contrasto fra aspirazioni romantiche e cultura settecentesca. Ma (a parte le diversità di situazioni dei tre poeti) questa constatazione di fatto va poi interpretata assai diversamente, ché alla fine quella mancanza e chiusura a vie piú sicure e piú facili (che poi in altre situazioni potevano diventare produttive e feconde, come nel caso di Hölderlin in cui la collaborazione con Hegel si associa al potere valore poetico del Werden nella sua poetica) si commutava nello stimolo ad uno scavo piú profondo nel dramma dell’esistenza e della sensibilità, dava una risonanza poetica tanto piú profonda alle loro «illusioni», sicché i Sepolcri lungi dal derivare da quel contrasto la loro frammentarietà ne ricavano la loro spinta dinamica, la loro lontananza da un puro canto alla vita, il freno interno alle tendenze foscoliane piú retoriche.

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Ed anche nei casi in cui l’indicazione o involuzione di un poeta (entro una tendenza di critica dinamica da me fortemente appoggiata,) alla luce della sua posizione politica, ideologica, sociale e della linea di movimento della storia, potrà essere accertata effettivamente, occorrerà pur sempre considerare non automatico e immediato ed uguale il rapporto fra tale evoluzione o involuzione rispetto alla storia e l’involuzione o evoluzione poetica dello scrittore: non perché tale problema e rapporto siano surrettizi ed inutili, ma perché anche tale aspetto di storicizzazione e di caratterizzazione concreta va calato e calcolato entro la tensione e mediazione poetica, entro il ricambio poetica-poesia, entro la complessità dell’esperienza personale e delle possibilità poetiche che vi si sviluppano.

Certo nello svolgimento dell’attività di un Metastasio (che pur nei suoi limiti e nei limiti del suo tempo fu tutt’altro che inizialmente evasivo e puramente letterario) sarà facile indicare, dopo le prime opere dei primi anni viennesi, un rapido declino contemporaneo delle sue possibilità poetiche e una incapacità a seguire lo svolgimento di razionalismo in illuminismo, un suo isolamento sempre maggiore dallo sviluppo delle tendenze della sua epoca, una vita sempre piú astratta, solitaria e priva di succhi storici e del caldo contatto con un pubblico vasto (di cui prima aveva interpretato personalmente esigenze genuine di socievolezza, di dialogo, di vita genuina e tenera di sentimenti, di gentile vibrazione patetica in azione melodrammatica), il prevalere sempre piú forte di un’aulica concezione di sterile eroismo e di aristocratico altruismo di anime belle. E ciò ricondurrà a confermare la scarsa complessità del poeta e della sua poetica incapaci di sviluppi e di rinnovamenti entro la storia, ma anche a meglio comprendere il terreno di forza della limitata esperienza metastasiana, la sua adesione all’epoca arcadico-razionalistica nelle sue posizioni di primo Settecento, la fecondità dell’accordo del poeta col suo tempo nell’epoca della Didone e il recupero piú interno di quell’accordo rivissuto piú fantasticamente nei primissimi anni viennesi quando nostalgia si commuta in bisogno e forza di rappresentazione dei sentimenti lievitati nella esperienza.

Ma nel caso del Parini e del suo ultimo svolgimento sarà errore (e proprio errore storico-critico e non solo del gusto di una lettura diretta) equiparare una minor tensione dell’impegno combattivo delle prime Odi e delle prime parti del Giorno, dell’entusiasmo illuministico e riformatore del poeta (del resto ben diversi anch’essi dalle posizioni di un propagandista e di un collaboratore contenutistico e non perciò svalutabili a materiali indifferenti al lavoro di un puro letterato di ascendenza arcadica), a una involuzione poetica che smentirebbe il tradizionale omaggio critico alle ultime Odi.

Certo si deve constatare un maggiore isolamento del poeta nel suo mondo morale e fantastico, nel vagheggiamento di alte figure di «calocagatia», una maggior pacatezza e distanza dai suoi impegni polemici, e un coerente mutarsi della sua poetica e del suo linguaggio da forme piú icastiche e satiriche, piú sensuose e frizzanti, a forme piú innografiche, piú distese e serene, appoggiate al piú preciso incontro del Parini con il gusto neoclassico. Ma, mentre questo non si risolve affatto in una adesione passiva alle forme piú illustrative e archeologiche di tanta letteratura neoclassica, e corrisponde ad un interno bisogno di alleggerimento e rasserenamento del suo animo e della sua poesia legato anche alla coscienza (non importa se in parte illusoria) di una battaglia sostanzialmente vinta e di una necessità piú di costruzione che di polemica, è evidente che, nelle ragioni interne della poesia pariniana, questo sviluppo non è affatto improduttivo poeticamente, ed anzi conduce ad uno sviluppo poetico piú alto e personale in cui gli ideali pariniani, che sorreggevano il suo stesso impeto e la sua polemica poetica, si sono approfonditi e meglio disposti a vita poetica, fatti ancor piú persuasi e luminosi, piú personali e universali, e l’affinamento di sensibilità e di gusto («orecchio ama placato la Musa e mente arguta e cor gentile») e l’impegno in una poetica meno didascalica han ridotto i margini polemici, la ricerca di efficacia, lo sforzo a volte troppo pregnante del suo linguaggio epico-satirico senza perdere i frutti piú intimi delle precedenti esperienze e senza risolversi in una evasività blanda e diafana, come potrebbe apparire a qualche orecchio duro e a una considerazione storica insufficiente perché incapace di superare l’aspetto documentario delle opere d’arte e di intendere di queste il dialettico rapporto con l’esperienza personale e storica del poeta.

E se l’attenzione alla posizione politica del Pascoli servirà a convalidare la profonda falsità della sua poesia politica e storica (arretrata concezione retorica del poeta vate, debolezza e ambiguità del suo socialismo nazionalistico, incomprensione delle reali condizioni sociali italiane), nello studio dell’ultimo Carducci non sarà accettabile l’intera equivalenza di involuzione politica e involuzione poetica che pur si giustifica assai chiaramente per quanto riguarda la poetica, di «dovere» e l’eloquenza delle cosiddette grandi odi in rapporto alla perdita di contatto del poeta con le forze piú vive della storia del tempo e al suo accordo con un preciso settore conservatore della società italiana, con la politica crispina, con il crescere del nazionalismo autoritario e antipopolare. Involuzione verificabile anche in quella componente di spiritualismo senile che sfocia nella retorica vaporosità di Alla chiesa di Polenta. Ma al critico che guardi, senza lasciarsi piegare da schemi rigidi, alla intera realtà della personalità carducciana nel suo ultimo svolgimento, non sfuggirà che, sull’avvio di un ripiegamento interiore configurato nella proposta di una poetica della «malinconia», l’animo poetico carducciano pur continuava a svolgersi in una direzione di intimità senza enfasi, di visione fresca e nuova, cui contribuisce sin la vibrazione piú sommessa e meditativa dello spiritualismo cosí prevaricante in retorica nella direzione della poetica falsamente grandiosa e ufficiale del vistoso poeta dell’età umbertina, ed egli constaterà in questa specie di sdoppiamento, e di rivincita e di riscatto di moti intimi piú autentici, la via per cui il Carducci collabora, a suo modo, a nuove forme di tensione poetica, a elementi vivi della crisi postromantica.

Insomma sarà insufficiente una storicizzazione che non sia orientata a compiti critici e che non articoli la storia di un’epoca o di una personalità letteraria nel loro particolare piano di esperienza, di tensione e di tecnica entro un cerchio di nessi e rapporti e condizioni (non di cause e determinazioni e di equivalenze immediate) rivissuto in prospettive di poetica e in situazioni concrete variamente propizie al nascere e affermarsi dell’arte, ma giudicate tali solo dall’interno della poetica e della tensione poetica che effettivamente si instaurano e si svolgono in volontà, possibilità e realtà di opere artistiche.

Alla stessa maniera guardando alla storia di un poeta, l’accertamento (per me importante e fecondo in reazione a concezioni di purismo estetico che separano nettamente la vita della poesia dalla vita della personalità in cui essa nasce e si afferma) della sua esperienza vitale, della sua vita concreta e complessa sarà da calcolare non come causa e materia immediatamente trasferibile in poesia, ma come Erlebnis – con ciò che questa parola comporta di rivissuto o cosciente – che il poeta rivede nell’orientamento della sua poetica ai fini della sua poesia, come elemento vivo della sua storia dinamica entro cui la poesia, senza decadere a bruta autobiografia e meccanica traduzione di vicende e di sentimenti particolari, trova le sue occasioni, le sue situazioni concrete, e si presenta, nel suo accordo dialettico con la personalità intera del poeta, in un ritmo di svolgimento storico, ha un suo speciale farsi (poeta nascitur et fit) a cui son sempre essenziali e la originale forza e natura poetica e la coscienza e destinazione artistica.

La poetica viene cosí per me sempre piú approfondendosi nelle ragioni interne e storiche della poesia, nella commutazione e nell’orientamento artistico dell’esperienza personale e storica: non solo «programma» e meditazione del poeta sull’arte, ma – come ho mostrato nell’esempio foscoliano – coscienza e direzione artistica dell’esperienza totale, senza di cui questa e la vita complessa e concreta del creatore sarebbero indifferenti (o viceversa prevaricanti) rispetto al suo agire poetico, all’unica storia ideale o stilistica del poeta, come la storia di un’epoca sarebbe inutile sfondo alla sua storia letteraria o viceversa pesante limite deterministico alla peculiarità o autenticità dell’esperienza artistica.

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In una considerazione della critica quale operazione interamente individuale ed astorica (e al fondo c’è pure un legame fra una simile considerazione della critica e una concezione della poesia come astorica e unicamente indagabile nel testo e nello stile) sarebbe anche inutile lusso di informazione inessenziale la storia della critica, che invece, se rettamente intesa e utilizzata, ben rientra fra gli strumenti e gli elementi storicistici di una interpretazione storico-critica tesa a rifiutare ogni accostamento impressionistico e non perciò a mortificare l’iniziativa e la freschezza personale di un critico, tanto piú avvalorate e rese sicure della loro originalità quanto piú esercitate e provvedute di strumenti e disposizioni euristiche, di consapevolezza della complessità o serietà culturale dell’attività critica.

E se nello sviluppo piú recente di tale studio e nella sua eccessiva proliferazione si può avvertire il pericolo di esercitazioni scolastiche fine a se stesse o quello piú grave di una riduzione della critica a sopralluogo frettoloso e a conclusione giudiziaria per scarto e cernita solo delle posizioni critiche precedenti (quando poi non si tratti invece di una sovrapposizione di tesi precostituite e partigiane che falsano la realtà e la fecondità della storia della critica nella pura preparazione di un messianico e tendenzioso enfin vint), l’impiego di questo strumento storico-critico rivela la sua validità non solo in quanto risponde ad una esigenza di piena conoscenza del lavoro critico precedente – con l’eliminazione di inutili «nuove scoperte dell’America», e con l’offerta stimolante di spunti critici spesso annidati in giudizi minori o meno noti, a volte sommersi dalle onde piú potenti del gusto da cui essi discordavano –, ma in quanto situa la nuova iniziativa interpretativa entro una prospettiva problematica già aperta, entro una storia critica già in atto. E cosí rafforza nel critico la responsabilità del suo lavoro come collaborazione all’ulteriore affermazione del valore artistico e della sua vita attuale nella continuità della sua vita critica precedente e come partecipazione ad una forma di conoscenza storica che reagisce coerentemente ad ogni forma di accostamento impressionistico e degustativo dell’opera d’arte quale oggetto immobile e astorico sia nella sua nascita sia nella prosecuzione della sua vita e nei modi con cui successivamente l’opera d’arte è stata intesa e valutata, e ha provocato tensione poetica e critica, ha suscitato discussioni e problemi di gusto, di ideologie e di cultura.

Su di un piano generale l’esercizio della storia della critica rinsalda dunque nel critico la sua coscienza storicistica e un senso robusto della storicità della critica (lontano dalla esasperante impressione della trottola del gusto e dalla illusione della formula insuperabile in quanto mostra le ragioni profonde dello svolgimento e cambiamento dei giudizi, la loro non casualità e il loro fecondo margine di approssimazione in assoluto in una storia che non conosce mai l’ultima parola pena la morte dogmatica e scolastica), e insieme riconduce – attraverso l’esperienza della vita di un problema critico che ha implicato motivazioni culturali, ideologiche e sin politiche delle diverse posizioni critiche – a tanto piú sentire i rapporti che legano la critica e la storiografia letteraria a tutta la cultura e la storia e i rapporti che a queste legano la stessa attività artistica che nel suo corrispettivo critico tali problemi ha suscitato e richiesto: sicché la storia della critica si mostra parte effettiva della storia della cultura pur con i suoi problemi specifici e tecnici. E d’altra parte l’esperienza del particolare problema di un autore già ne approfondisce (attraverso i problemi che ha promosso) una piú forte conoscenza e ne avvia una interpretazione che media (come in ogni operazione storica) le proprie esigenze ed istanze personali e storiche con quelle che in altre epoche l’opera d’arte ha promosso, in una trama di discussione e di esperienza che attenua la possibile prevaricazione del presente sull’alterità del passato e meglio dispone a far valere la propria interpretazione (non a mortificarla e causalizzarla) e la sua novità nella piena consapevolezza del problema trattato, del suo svolgimento e del significato che in questo assume la sua interpretazione. Strumento essenzialmente storicistico, la storia della critica rifluisce e si coordina in un sistema storico-critico che nella poetica (con le sue implicazioni piú complesse) trova anche un nuovo legame fra critica e arte e rifiuta sia la figura del critico come artifex additus artifici sia la parziale verità del philosophus additus artifici e piú punta su di un critico storiografo che, vivo nella poetica del suo tempo e in una propria poetica, storicamente ricostruisce le poetiche del passato e la tensione fra poetica e poesia in tutta la sua concretezza storica e personale e cosí facendo sostiene e assicura la sua interpretazione critica, la sua valutazione delle opere e delle personalità poetiche.

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E proprio nel convergere dello studio di poetica, dei rapporti vita-poesia e poesia-cultura e storia, della consapevolezza della storia della critica entro una interpretazione tesa a raggiungere e valutare i risultati e i modi della poesia nello svolgimento dinamico e intero di una personalità storicamente concreta, posso meglio configurarmi à rébours il procedimento della mia stessa esperienza critica nel caso della interpretazione di un singolo poeta e di un mio intervento nel suo complesso problema critico.

Parlo del problema critico del Leopardi e di una mia interpretazione ripresa piú volte (dal ’36 in poi) ma fin dall’inizio sostanzialmente innervata nel rapporto poetica-poesia avviato in quel senso di una ricostruzione dinamica della personalità nella storia che esso ha sempre piú preso per me sino ai piú recenti sviluppi di applicazione proprio in sede di ricostruzione di una personalità poetica (da quella dell’Ariosto a quelle piú recenti del Parini, del Carducci o di momenti dello svolgimento foscoliano). Interpretazione stimolata insieme da una discussione e da una utilizzazione della storia della critica fra la reazione alla diagnosi crociana del poeta della vita strozzata o dell’unico motivo idillico (con ciò che essa comportava in sede generale di misconoscimento dei piú profondi rapporti vita-poesia e poesia-cultura o storia, di isolamento di un nucleo immobile di poesia in qualche modo noumenico e indifferente alla vita della personalità troppo superficialmente e poco storicamente indagata, di dura frattura fra poesia e non poesia) e un sempre piú intenso avvertimento della fecondità del modulo interpretativo desanctisiano di biografia critica nel saggio incompiuto sul Leopardi: modulo che io cercai di riprendere riportato in una piú moderna forma di svolgimento vita-poesia mediato dalla poetica. Forma che permetteva, al di là del De Sanctis, una piú precisa valutazione del fare artistico leopardiano e del suo impegno elaborativo, ma che comunque fortemente risentiva della generale lezione desanctisiana di interpretazione dinamica personale e storica del Leopardi e dei vigorosi spunti critici che, contro la stessa tesi idillica, affermavano elementi della natura eroica leopardiana, anche se nel grande critico non erano stati passati a piú precisi e organici sostegni di una poetica o di una poesia non idillica negli ultimi canti.

In quella discussione, e nel rimando che il modulo dell’interpretazione del De Sanctis e nuovi studi sul rapporto pensiero-poesia e sulla posizione storica del Leopardi (Gentile e Salvatorelli) suggerivano a una piú forte indagine della personalità in movimento e dello svolgimento delle posizioni ideali e combattive del Leopardi nel suo tempo, la prima impressione di altezza e di novità degli ultimi canti nata ad un primo accostamento di lettura (un primum inevitabile e che corregge l’impressione di una nascita di problemi critici solo per discussione con la critica precedente) mi si venne chiarendo e cambiando nella individuazione di una nuova poetica non idillica in cui il poeta aveva disposto in direzione artistica (e quindi con tutta una coerente impostazione di linguaggio, di tecnica, di modi espressivi) la sua nuova esperienza e la coscienza del suo significato umano e storico, la sua impostazione di persuasione combattiva e di eroico impegno nel suo atteggiamento speculativo e morale, che lo avevano condotto ad abbandonare la pur altissima posizione del ricordo e dell’elegia idillica e la inerente poetica.

Lo studio di poetica realizzava cosí l’accertamento di una diversità nella vita e nella poesia dell’ultimo Leopardi in un nuovo rapporto profondo fra queste e in una volontà e disposizione di realizzazione artistica che si svolgeva coerente, e non perciò immutabile, sino alle forme singolarissime della Ginestra, inspiegabili (se non come caduta totale di gusto e di animo) se misurate sul paradigma della poetica idillica, ma ben diversamente valutabili se rispiegate dalle loro ragioni interne commutate in direzione artistica, in una poetica che portava all’estremo l’impostazione dei canti del ’31-32, come la posizione leopardiana di combattività, di presenza, di persuasione di personali e storici valori e disvalori era lí portata alle sue estreme conseguenze.

Una diversa poetica, una diversa disposizione di poesia che non esclude evidentemente la discussione sui risultati (per me positivi ed alti, anche se variamente tali e non assurdamente superiori alla perfezione dei grandi idilli), ma che ne è comunque preliminare momento di possibile comprensione e valutazione. E che era risultata da convergenti indagini sulla personalità del Leopardi e sulla sua natura e volontà artistica, sul muoversi del suo animo, del suo pensiero, della sua posizione nella storia: con problemi specifici nel poeta e nel critico, ma inseparabili dai problemi storici di una personalità viva e concreta. Con tutta una possibilità coerente di ulteriore precisazione sia nel fondo storico e personale sia nel consolidamento di linguaggio e di stile, che comunque vengon chiaramente sostenute e centralmente giustificate da una simile interpretazione meglio che da studi che non partano dal centro vivo di una personalità storica e della sua poetica o da studi che non rivedano la destinazione artistica e i modi artistici di una personalità poetica.

Per non dire di un caso minore, ma assai sintomatico per le possibilità di una interpretazione impostata sulla ricostruzione dinamica di una personalità nel suo sviluppo intero di poetica e di poesia, nella sua intera esperienza e commutazione in direzione artistica della sua esperienza vitale, storica, letteraria. Quello di Giovanni Della Casa, troppo a lungo rappresentato nella tradizione critica romantica e postromantica come figura di petrarchista sic et simpliciter in una visione puramente negativa del petrarchismo cinquecentesco e piú recentemente (dopo la valorizzazione crociana del petrarchismo come disciplina e scuola letteraria) interpretato come abilissimo retore e applicatore della retorica ciceroniana. Mentre, in una ricerca storico-critica mossa dall’interno della sua poetica e della sua poesia entro lo sviluppo della personalità e delle sue esperienze vitali e culturali (e insomma alla luce di uno studio di poetica nella sua accezione piú intera), è venuto rivelando (su di un percorso critico piú recente, arricchito di interventi se non univoci certo convergenti) un singolare sviluppo da tecnica a poesia, una interna maturazione di autentici motivi poetici che vennero manifestandosi quando, nella tarda situazione biografica del poeta, un moto di delusione e di ripensamento della propria vita, sollecitato da vicende e da consonanze interiori con il nuovo clima culturale e religioso del secondo Cinquecento, corrispose ad una presa di coscienza poetica della propria esperienza e della propria natura artistica. E il Della Casa adibí mezzi espressivi prima sperimentati in una dimensione piú chiaramente rettorica (anche se non priva di tensione alla poesia) a nuove e schiette funzioni poetiche, a una nuova gravitas interiore e personale (a cui aveva già guardato il Tasso in una consonanza storica e poetica troppo obliterata nelle posizioni romantiche e non perciò meno stimolante per chi indaghi ed accetti le offerte intere della storia della critica), ad uno sguardo lirico meditativo che consolida il senso piú profondo della propria situazione vitale e della esistenza umana in miti e quadri di singolare intensità e fermezza poetica e in avvii di poesia «metafisica».

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Mi sembra infine che la ricostruzione storico-critica di una personalità artistica quale sono venuto delineando, proprio per la sua disposizione centrale a rappresentare l’intera esperienza dello scrittore, la sua tensione fra poetica e poesia, il suo sviluppo di ispirazione e di lavoro costruttivo, permetta, ed anzi richieda, per sue intime esigenze (e non per accettazione dall’esterno di procedimenti eterogenei), tutto un uso attivo ed organico di tecniche critiche, di dimensioni di studio che, inessenziali ad una critica contenutistica o a posizioni di crocianesimo ortodosso (che alla fine riducono la stessa feconda lezione crociana a formula ferma e non suscettibile di storico sviluppo), sono ben pertinenti ad una critica che fortemente guarda al lavoro espressivo, al farsi concreto dell’arte nel movimento della personalità artistica alle sue mete, ai suoi risultati.

Parlo soprattutto degli studi dell’elaborazione, delle redazioni e varianti di un’opera d’arte, che, se possono ridursi ad esercitazioni diligenti ma poco produttive quando si appoggino ad una nozione della poesia sol come prodotto di calcolo tecnicistico, assumono un piú centrale valore se vengano articolate entro una ricostruzione totale della creazione artistica nelle sue vive scelte, nella sua tensione all’opera, nei suoi problemi tecnici mai dissociati dalla funzione di consolidamento ed espressione di un mondo interiore e storicamente valido. In un complesso lavoro che d’altra parte troverà la sua misura finale, la sua giustificazione di realizzato valore nell’opera (non dunque una irrequietezza senza termine valida in sé e per sé); mentre l’opera stessa sarà ben diversamente intesa e valutata e criticamente posseduta se il critico ne avrà ridispiegato la formazione e i modi costruttivi.

Cosí, riviste dall’interno di una tensione operante, le stesse varianti coeve di un testo non sono mai equiparabili ad una esterna e indiscriminata scala di possibilità che potrebbe essere aumentata all’infinito secondo un astratto e impersonale vocabolario di parole e immagini o ad una tastiera indifferente alla musica che il poeta vuol trarne, ma sono invece la gamma ben significativa di possibilità sperimentate entro un raggio di scelta inerente alla poetica dello scrittore, provate e dirette nel ricercato accordo con la sua prefigurazione artistica personale, con i toni del suo animo e della sua ispirazione. E tanto piú il valore e la pertinenza di un simile studio sarà evidente quando si tratti di redazioni successive, inseribili in una storia del poeta e della sua interna lotta per l’affermazione concreta della sua poesia: lotta spesso tormentata e difficile, ché tutta la nostra esperienza ci riconduce ad un senso del poiein artistico assai diverso dalla romantica immagine di una immediatezza di getto, ad un senso diverso della spontaneità come conquista della spontaneità.

Si riveda, come esempio assai sintomatico del valore che possono prendere gli studi sulla elaborazione di un’opera (e magari di un suo particolare) quando siano parte di una ricostruzione critica che coinvolge tutta l’interpretazione dello svolgimento di un poeta nel convergere in lavoro creativo di tutta la sua personalità in tutte le sue dimensioni effettive, il caso dell’ultima battuta di Filippo nell’omonima tragedia alfieriana. Battuta passata, attraverso un lungo lavoro di redazioni intermedie, da una prima intuizione insufficiente e parziale ad una estrema realizzazione, nell’edizione definitiva, in cui quella prima intuizione è stata approfondita e portata ad una luce poetica piena, ad una coerenza intera poetico-teatrale che esprime il valore del personaggio, il senso della sua favola tragica, e, in questi, la vibrazione pú intima della poesia alfieriana, raggiunta, in quella precisa situazione, nella commutazione poetica di tutta una esperienza vitale e storica, di tutto un formidabile lavoro espressivo, di tutto il rigore morale e artistico del grande poeta.

Nella prima idea in francese, del ’75, il protagonista concludeva la sua azione con l’espressione di un esplicito compiacimento per la vendetta attuata: «Philippe finit en recommandant à Gomez un secret inviolable sur cette affaire, et content d’être vengé». Ma già nella stesura in francese la battuta di Filippo è limitata alla raccomandazione rivolta a Gomez di non far mai trapelare la verità di quel «funeste événement», e una battuta di Isabella morente già suggeriva, in forme troppo comuni, una possibilità di sviluppo ulteriore dell’animo di Filippo: «Tyran es-tu satisfait? ton fils, ton épouse, ce que tu devois avoir de plus cher périt par ta main, périt à tes yeux, et périt innocent; monstre, tu ne trembles pas?». Mentre nella stesura italiana già affiora piú decisamente un nuovo atteggiamento di Filippo preso da un improvviso moto di rimorso e volto a riconoscere sin troppo esplicitamente l’inutilità della sua azione in senso morale-eudemonico: «Ah Gomez di già i fieri rimorsi mi squarciano a brano a brano, la pace che dai delitti invano sperava mi fugge»: parole intervallate, rispetto all’ultima raccomandazione di segretezza, da un ultimo sfogo di Isabella che invoca dal cielo la vendetta e una pronta morte che la ricongiunga a Carlo. Ma, a parte questo intreccio di voci di effetto troppo melodrammatico, l’indicazione dei «fieri rimorsi» insisteva eccessivamente su di una coscienza e su di una aperta conversione morale che stonavano con la direzione fondamentale della figura di Filippo tutta impostata su di una estrema lucidità di azione e viceversa in una motivazione sin troppo chiara di gelosia. Né molto diversamente si articola la battuta della versificazione del ’76, anche se essa porta una notevole unificazione delle due ultime battute di Filippo ed espunge l’improprio intervento di Isabella:

Fieri rimorsi

già mi squarciano a brano a brano il petto.

Ah che purtroppo è ver, che mal s’ottiene

la pace dai delitti! ognor s’asconda

Gomez l’orribil caso: a me l’onore

tu salverai tacendo: a te la vita.

Solo nella redazione del 1780 la battuta finale, appoggiata all’apertura allucinante dell’immagine del «mar di sangue» (con un’espansione metaforica eccessiva che pur voleva contribuire a un essenziale innalzamento di tono), si arricchisce di una prima abbozzata forma del grande interrogativo-vocativo che costituirà lo scatto piú nuovo e coerente della insoddisfazione e delusione di Filippo:

Un mar di sangue

scorre. Ah Filippo vendicato sei,

ma felice sei tu? Gomez l’orrendo

caso ad ogni uom s’asconda: a me l’onore

a te la vita salverai se taci.

E proprio nella redazione del 1781 il gran numero di varianti può indicare l’assillo del poeta circa la piú sicura impostazione dell’interrogativo ormai sentito centrale e a cui egli non riusciva a togliere l’inclinazione troppo familiare e insieme retorica della seconda persona e dell’indicazione del proprio nome, e la disposizione piú discorsiva fra la constatazione della vendetta e quella della insoddisfazione dolorosa.

Sinché, nella forma definitiva dell’edizione Didot (nel volume aggiunto dell’89), tutti gli elementi, che da tempo cercavano equilibrio e coerenza, vengono ad assumere la loro sicura funzione in un ritmo tragico desolato e potente, come la figura di Filippo vi trova la sua perfetta misura, superando e la mostruosità un po’ ingenua dell’inizio e l’intrusione moralistica troppo esplicita successiva in una complessità enigmatica, ma umana, in cui l’impeto dolente dell’insoddisfazione concorre a risolvere un esemplare termine del modulo tragico alfieriano senza cadere o nella giustapposizione del riconoscimento della giustizia divina del Creonte dell’Antigone né d’altra parte giungendo alla diversa e piú profonda complessità del tiranno vittima nel Saul, di cui pur costituisce un antecedente essenziale nella situazione peculiare della tragedia giovanile.

Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio...

Ecco, piena vendetta orrida ottengo...

Ma felice son io? Gomez si asconda

l’atroce caso a ogni uomo. A me la fama,

a te, se il taci, salverai la vita.

Ogni parola vi ha preso il suo posto e il suo peso immutabile, fino alle virgole e ai punti sospensivi essenziali all’espansione poetico-tragica della destinazione teatrale radicalmente presente nell’ispirazione e nella poetica alfieriane. Ma come intendere e valutare appieno e il risultato ultimo e il suo equilibrio supremo (il tipico equilibrio alfieriano sulla tensione e intensificazione dei nuclei interni e del loro consolidamento espressivo di immagini e linguaggio) e insieme intendere e valutare la lunga vicenda poetica che vi confluisce e vi si realizza, e il senso e l’apporto dei vari passaggi (e il significato delle loro particolari condizioni), senza rifarsi (ben piú che in forme di verifica, in forma di nuova collaborazione dell’esame particolare e dell’esame generale) alle ragioni centrali di un lavoro di revisione che è continua reinterpretazione dall’interno dei propri fantasmi poetici – non l’immagine che vuol realizzarsi quasi per una propria spinta autonoma ma la fantasia sempre piú consapevole e matura – e a tutto lo svolgimento alfieriano con le sue nuove esperienze vitali, culturali, artistiche, con la sua conquista lenta e sofferta di uno stile piú maturo che corrisponde a nuove conquiste di una intuizione tragica piú profonda? Sicché lo stesso modulo dell’interrogativo-vocativo dentro lo sviluppo del dialogo sempre piú esplicito sarà insieme una conquista tecnica della piú matura teatralità alfieriana e il corrispettivo di una profonda maturazione del personaggio, organicamente sviluppata in tutta la tragedia, e dell’intuizione tragica alfieriana legata alla novità di altre opere e all’intreccio fra queste e la reinterpretazione delle prime tragedie. Mentre l’abolizione della seconda persona implica insieme la finezza del gusto che ha avvertito un pericolo retorico, una confidenza e un autointenerimento prosastico, e la piú profonda intuizione di un decoro tragico che si fa dignità, di una meditazione concentrata sull’assoluta e sofferta intimità dolorosa del tiranno che scopre nella sensazione della limitatezza e insufficienza della sua azione, della sua tensione di affermazione e di abnorme felicità, la sua singolare umanità di vittima.

Mentre dunque l’assolutezza e la ricchezza della redazione definitiva sarà tanto piú compresa e valutata se ridispiegata nella tensione da cui è nata, sarà ben chiaro che non si può studiare l’elaborazione di un particolare senza risalire ai motivi centrali e alle ragioni interne e alla loro direzione che la motivano. Né basterà spitzerianamente risolvere la circolarità centro-particolare nella generale individuazione dell’etimo spirituale dell’opera, ma occorrerà reinserire il particolare e l’opera in tutto lo svolgimento della personalità creatrice e della sua poetica, nell’articolazione delle sue varie fasi e della sua esperienza concreta, nella sua intera realtà storico-letteraria. Mentre poi questo studio servirà a ricostruire la storia dello svolgimento alfieriano meglio di quanto potrebbe farsi con la sola opera definitiva.

Solo cosí anche lo studio di un particolare di una tragedia alfieriana collaborerà organicamente alla ricostruzione e alla valutazione della singola opera e di tutta la poesia alfieriana e condurrà non alla disgregazione del giudizio e alla semplice descrizione del lavoro tecnico del poeta, ma alla realtà e concretezza e duttilità di un giudizio storico-critico, reagendo alla formula unica, alla rigidità del nucleo immobile e trascendente, contribuendo ad una interpretazione dinamica della personalità artistica fino alle sue estreme realizzazioni in cui anche l’osservazione del cambiamento e la raggiunta necessità di una parola e magari di una virgola potrà essere criticamente valida ed utile se il critico vi giungerà dal pieno della ricostruzione intera della personalità che vi ha consolidato la propria intera tensione poetica. Secondo la celebre frase del Foscolo secondo cui «ad ogni pensiero ed immagine che il poeta concepisca, ad ogni frase, vocabolo o sillaba ch’ei raccolga, muti e rimuti, esercita ad un tratto le facoltà tutte quante dell’uomo».

Ma quella frase storica andrà intesa nella direzione non reversibile e nella volontà di unità e integralità da cui scaturisce. E verificare concretamente che nel piú minuto lavoro espressivo siano effettivamente (e quando siano) presenti tutte le forze dell’uomo-poeta e non solo quelle dello sperimentatore tecnico e del letterato squisito, e che quelle forze siano orientate ad una meta poetica sulla forza di una ispirazione e nella coscienza artistica, può essere il compito arduo del critico che solo nella sicurezza di tale complessità e intima integralità dell’arte e della critica può assicurare a se stesso la centralità e la validità di ricerche particolari, della sua attenzione ai segreti della officina dei poeti, senza rischiare di ridurre essi e se stesso alla dubbia misura di un tecnicismo che alla fine svuota di senso storico e critico le piú utili e utilizzabili tecniche euristiche e svaluta le stesse ragioni che rendono veramente «tecniche» le tecniche.

Cosí, ancora usufruendo dell’esempio dell’Alfieri (la cui grande poesia è stata tante volte misconosciuta proprio per un’insufficiente comprensione della radicale unità della sua poetica teatrale e dei suoi problemi di stile con la sua intuizione tragica storicamente intesa e dei modi del suo svolgimento storico e personale che ne avvalorano e giustificano le sue diverse possibilità poetiche), persino la ricerca statistica di parole e di abitudini stilistiche (inaccettabile quando pretenda di risolvere in una descrittiva obbiettiva e matematica la realtà di un’opera d’arte respingendo come inessenziale o fuorviante, rispetto ai compiti della critica, ogni attenzione alle ragioni interne della personalità artistica) può rientrare funzionalmente in una ricostruzione unitaria e dinamica della personalità poetica e contribuire a configurarne tendenze e momenti di svolgimento.

Come accade con l’identificazione della parola «pur troppo», che (ripresa dall’accezione piú comune nel Settecento di «anche troppo» o di esclamazione elegiaco-melodrammatica) sempre piú si precisa nella sua forma sintetica di una dolente o sdegnata constatazione pessimistica di fronte alla realtà storica o esistenziale e a un certo punto dello svolgimento alfieriano moltiplica la sua presenza nelle tragedie e negli scritti etico-politici della maturità, fino al caso un po’ ripetitorio e stanco della versione dell’Alceste euripideo (Alceste prima) in cui la sigla del traduttore-rifacitore si identifica spesso con l’esasperante e piú meccanico ritornello dei «pur troppo».

Orbene il rilievo di questa parola «alfieriana» e del suo intensificarsi e farsi centrale a momenti estremi prende valore e si giustifica criticamente se organicamente collegato con tutto lo studio dello svolgimento alfieriano di cui diviene particolare sintomatico ed acuisce l’attenzione sull’interno rapporto fra la maturazione del pessimismo eroico dell’Alfieri e le forme del suo linguaggio eroico-elegiaco. Sí che quella parola sintomatica-tematica (in cui convergono tutta la meditazione dolorosa sulla realtà politica e non politica, la lettura approfondita del Machiavelli, l’esperienza sofferta degli anni della lontananza dalla donna amata tradotta nelle forme piú psicologiche delle Rime) servirà a meglio evidenziare quella maturazione profonda: colta magari piú puntualmente nella revisione dell’inizio del trattato Del principe e delle lettere (incominciato nel ’78 e ripreso e svolto nell’84, tra Saul e Mirra), in cui la drammatica frase d’apertura viene rinnovata e approfondita dall’inserimento parentetico ed esclamativo di un «purtroppo» («la forza governa il mondo (pur troppo!) e non il sapere...») che, carico di una lacerante risonanza personale e storica, spirituale e poetica, scandisce ben diversamente la frase prima costruita in forma di piú compatta sentenza in analogia con l’approfondimento di certe battute tragiche – prima piú rettilinee e compatte, poi piú movimentate ed echeggianti della nuova consapevolezza dolorosa del dramma umano – e con l’approfondimento generale di tutta l’intuizione tragica alfieriana che ha superato e arricchito il contrasto piú rigido delle prime tragedie e l’impeto piú fiducioso della Tirannide e della Virginia sino alla nuova complessità del Saul e della Mirra e alla loro coerente novità di linguaggio e di rappresentazione teatrale.

E come davvero intendere i singolari aspetti nuovi del linguaggio e della costruzione della Mirra (prova suprema della poesia alfieriana, estremo sviluppo della sua intuizione tragica, della sua meditazione sulla situazione umana, del suo lavoro espressivo, della sua potente e genuina vocazione ed esperienza teatrale) se non articolando e saldando le osservazioni e costatazioni precisanti e puntualizzanti a tutta una organica interpretazione dell’opera e del suo rapporto con lo sviluppo della personalità alfieriana e della sua poetica operante in quella situazione creativa concreta, in quel momento di necessità e volontà espressiva?

Cosí l’identificazione di un parlato tragico piú graduato e familiare, della frequenza di forme dubitative e discorsive piú prosastiche (l’abbondanza dei «forse», «chissà», «adunque», «insomma»), prenderà valore e porterà luce critica sol se inserita nelle linee della poetica in cui l’autore ha diretto la sua necessità espressiva, nei problemi della sua costruzione poetica e del suo linguaggio creativo. E questi richiedevano appunto (recuperando i risultati della discussione alfieriana con il parlato tragico settecentesco nella prova di confronto, di assimilazione e di superamento con la Merope del Maffei nell’81) una piú ricca graduazione del dialogo, inerente a un nuovo rapporto fra il personaggio centrale e i personaggi minori, fra realtà comune e realtà tragico-eroica, meno in forme di massiccio contrasto e di stacco statuario, e relativa alla nuova tensione, nel personaggio centrale e nella situazione generale, del motivo tragico che cresce piú lento e graduato sino alla sua accensione piú disperata in uno scavo piú profondo e in un rifrangersi piú complesso, di cui quelle forme di parlato piú comune e perplesso sono appunto note essenziali, non una stonatura o il documento di una caduta prosastica e di un ripiegamento «borghese». Come il personaggio e la tragedia di Mirra non sono un indebolimento della forza tragica alfieriana, ma anzi il suo estremo e piú profondo e concreto sviluppo fatto vibrare entro un intreccio piú complesso di innocenza e colpa, di eroismo e pessimismo, di ammirazione e compassione per l’altezza e miseria degli uomini in un’atmosfera di calda intimità e normalità familiare, fiduciosa e progressivamente turbata e lacerata dal dramma tremendo che sorge nel suo seno.

E ugualmente (riferendomi anche al vantaggio critico che deriva da una interpretazione dinamica di un’opera nel suo interno movimento e nella sua articolazione concreta in cui procedimenti tecnici e particolari espressivi van misurati nella funzione che il poeta ha loro dato e che essi han preso nello sviluppo dell’opera) sarà possibile intendere il significato e il valore dei cori della scena dell’atto quarto della Mirra (piú comunemente considerati come inserimento convenzionale e impoetico di un procedimento teatrale neoclassico e di un linguaggio letterario e fiacco) sol se si intenderà la volontà e necessità del poeta – a questo punto di svolta essenziale della tragedia, dove si infrange la disperata lotta di Mirra per ottenere la morte attraverso le nozze, la partenza da Cipro e l’impossibilità di sopravvivere lontana da Ciniro – di creare una eccezionale tensione tragico-teatrale (Alfieri non è un lirico che si esprime malgré lui in schemi teatrali impaccianti, ma un poeta tragico autenticamente bisognoso di espressione teatrale) in cui i cori, proprio con il loro linguaggio piú convenzionalmente decoroso e poco approfondito, creassero come una ossessiva, monotona cupola sonora, una continuità salmodiante sotto cui far risuonare tanto piú struggente e drammatico, da sommesso a lacerante, il crescendo della passione di Mirra sollecitata dalle domande inquiete dei personaggi minori e dalla immagini evocate dai cori che, per analogia o per contrasto, la richiamano alla sua situazione e che tanto piú in tal senso funzionano proprio con la loro voce di una umanità rituale e convenzionale, comune e normale, in pace con gli uomini e con gli dei.

Mentre l’identificazione di certe immagini e parole («aprir le vele ai venti», la partenza per mare al «mattino» ecc.) e della loro frequenza nelle parlate di Mirra nella prima parte della tragedia concorrerà, in una interpretazione della tragedia nella sua tensione e nel suo svolgimento tutt’altro che monotono e fermo, a far piú rilevare la ricchezza e complessità di quello sviluppo e dei suoi modi espressivi, a precisare fasi e momenti della tragedia del personaggio centrale, che in quelle immagini fantasticate e struggenti, radiose e intimamente funeree, esalta il suo complesso bisogno di illusioni e compensi liberatori, e mentre persegue l’obiettivo di una morte per dolore e per lontananza, tentando di persuadere con la sua ebrezza morbosa l’infelice Pereo alle nozze, trova un assurdo e poetico appagamento nell’allusione di libertà ed evasione di quelle immagini.

E la forza allusivo-simbolica di quelle e di altre immagini reperibili nel corso della tragedia concorrerà a chiarire, in una tendenza dell’ultima poesia alfieriana ad uno scavo piú profondo nel «cupo ove gli affetti han regno» – in una zona oscura e fermentante di istinti, di volizioni, di immagini, e dove si radica la passione contaminatrice mescolandosi inseparabile con la sorgente piú pura degli affetti –, la nuova forza poetica che ha saputo fantasticamente risolvere la nuova densità e profondità psicologica in modi allusivo-simbolici sempre fortemente caratterizzati e precisati nel loro rapporto interno con momenti diversi della tragedia. Sicché le nuove immagini (come quelle della sospirata e prefigurata morte per mano del padre) trasferiranno in poesia compensi e aspirazioni dell’eroina ben diversamente intensi di passione e di volontà funerea di quanto non fossero le prime tanto piú luminose ed aeree.

Insomma studio della elaborazione poetica, attenzione a statistiche di parole, di modus dicendi, di immagini o ritmi e forme metriche, a procedimenti particolari di una tecnica speciale (teatrale o narrativa) entrano di pieno diritto in una interpretazione storico-critica di una personalità poetica quando siano saldamente articolati e coordinati in una centrale linea ricostruttiva che ha sempre la sua base fondamentale nella interpretazione della dinamica vita della personalità nella sua concreta tensione espressiva, nella collaborazione di poetica e poesia di cui quegli studi sono funzione e strumenti di precisazione: non accessi privilegiati e unilaterali che possano sostituire l’operazione storico-critica centrale e che invece richiedono sempre una impostazione unitaria ed organica capace di ovviare ai pericoli di arbitrarietà fortemente inerenti ad esami critici che presumano di spiegare il tutto con il particolare. Come notoriamente è ben verificabile in un celebre saggio spitzeriano, quello sulla Phèdre di Racine, piegata, sul rilievo del récit de Théramène, ad un’interpretazione inaccettabile di centralità della figura di Teseo e del suo dramma di barocco desengaño che falsa la posizione di poetica, la direzione ispirativa di quella grande tragedia chiaramente impostata, nello sviluppo raciniano spirituale e poetico, come tragedia della passione di Fedra ben collegata ai problemi dell’allievo di Port-Royal e alla sua poetica di classica rappresentazione di personaggi nella loro lotta interiore, fra l’abbandono di Fedra a Venus à sa proie attachée e la sublime rinuncia di Bérenice.

Né occorrerà dilungarci sul fatto che anche i vecchi studi delle «fonti» potranno risultare tutt’altro che inutili se intesi a precisare la storia di un poeta, la formazione della sua poetica e del suo linguaggio, a incarnare la realtà del suo dialogo con altri poeti e con la tradizione, mai prescindendo dalle ragioni interne che motivano quel dialogo e lo graduano e articolano in un processo complesso e unitario, non solamente letterario e stilistico: è possibile, per tornare ancora e per l’ultima volta all’Alfieri, comprendere la sua formazione giovanile solo come apprendistato stilistico rifiutando attenzione alle vitali e culturali ragioni che lo conducono all’attività artistica e alimentano la sua attenzione alle forme narrative e satiriche del romanzo settecentesco francese e risolvere il significato dei «giornali» francesi in un esercizio di stile senza percepire in questo l’urgenza della sua crisi formativa?

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Da quanto sono venuto dicendo risulta soprattutto che il compito essenziale del critico, di cui qui si è parlato, consiste nel far convergere tutti i risultati della sua indagine in un giudizio storico-critico che accerti la consistenza, la realtà, i modi particolari della realizzazione artistica attraverso il suo processo formativo nella storia della personalità e nella tensione espressiva di un’epoca e ne consolidi il suo significato e valore nella storia della letteratura come storia di un’esperienza autentica e radicalmente connessa con tutta la storia della civiltà e della cultura nelle sue diverse fasi, nella sua perenne umanità, nella sua ricchezza problematica e nel suo orientamento inseparabile dal nostro presente, dalla nostra presente coscienza storica ed estetica, dai nostri problemi generali e particolari il cui concreto esercizio ci permette di sentir vivi i problemi e le realizzazioni del passato.

Giudizio storico-critico che ricondurrà sempre ad una illuminazione e comprensione e acquisizione nuova dei risultati artistici e ad un rafforzamento della nostra tensione e collaborazione alla nascita di nuovi valori poetici, senza di che l’opera della critica rimarrebbe sostanzialmente sterile archeologia e catalogazione erudita.

Sicché la preparazione culturale, storica, tecnica, la sua disposizione ed esperienza di storico di un’esperienza specifica e dei suoi rapporti con dimensioni storiche e culturali generali, saranno ovviamente produttive sol se funzionali alla nativa vocazione del critico ad essere interprete e collaboratore della poesia e della tensione poetica, alla sua fresca sensibilità e personale reazione ai testi poetici, alla sua disposizione al giudizio e all’accertamento dell’arte. Qualità educate nell’esercizio concreto, nella coscienza metodologica, nell’esperienza della storia della critica, ma inevitabilmente native nella loro prima radice: e se per il poeta si potrà dire che nascitur et fit (ed è su questo suo speciale fieri che si appunta la validità degli studi di poetica, ma è sull’unità inscindibile di tutta la sentenza che se ne ovvia ogni possibile intellettualismo), anche per il critico dovrà dirsi che la sua preparazione ed esperienza presuppongono il piú deciso nascitur. Cosí come essenziali saranno la sua genuina passione per l’arte, la sua partecipazione all’affermazione del valore poetico (che esercita chiaramente anche nella critica del passato), il possesso di un suo orientamento nel campo dell’esperienza artistica e del pensiero estetico: senza con ciò farne né un artista aggiunto all’artista né un filosofo puro né uno storico ignaro della storia per cui è storico, ma postulando come necessaria una sua partecipazione alla vita dell’arte, una capacità di intenderne i caratteri generali e particolari, una disposizione a intenderne le diverse forme storiche e il significato storico generale e specifico.

Donde l’importanza per il critico di un suo esercizio nella critica dell’arte contemporanea che tanto piú rafforza la sua natura di partecipe all’affermazione dei valori artistici e la necessità della sua iniziativa e delle sue reazioni dirette alle sollecitazioni dei fenomeni artistici, mentre evidentemente rafforza l’impegno contemporaneo con cui egli rivive i problemi e i fenomeni artistici del passato. Per non dire (tanto è evidente un po’ in tutto questo discorso) dell’importanza fondamentale e «culturale» (come cosí bene avvertiva il Momigliano in una discussione del 1916 sulla critica) di una vera, autentica vita del critico che gli permetta di intendere personalmente (per esperienza e integrazione di fantasia) i problemi sentimentali, culturali, etico-politici degli autori che studia e di riconoscerne la radice umana, la loro perenne attualità e storicità.

Ma, come un vero critico contemporaneo (non un cronista o un degustatore o un fazioso militante ideologico di chiese politiche o confessionali o letterarie) sarà inevitabilmente portato (il caso alto di De Sanctis e il verismo) a storicizzare anche il presente, ad accertarne i valori e le linee vive e ricche di possibilità e di futuro, a trasformare impressioni e reazioni in giudizio storico-critico e a porre nessi e rapporti fra letteratura e cultura, fra i problemi artistici e i problemi generali del proprio tempo, cosí sempre il gusto, la sensibilità, la reazione diretta ai testi tenderà a precisarsi e munirsi di preparazione filologica e storica e alla fine anche nei casi apparentemente piú sensibilistici e puramente istintivi sarà facile ritrovare, ad un esame accurato, una base culturale e storica per quanto limitata e contratta, un orientamento estetico e un riferimento a ideali e dimensioni non solamente di sensibilità.

E se a volte si può aver l’impressione che le esigenze strumentali enormemente accresciute possano soffocare la vivacità e l’iniziativa personale del critico (mole ruit sua), non sarà certo il caso perciò di smantellare la difficile e tormentata costruzione della nostra preparazione metodologica e strumentale per un semplice ricorso alla spontaneità e genialità immediata del critico, ma sarà invece necessario meglio articolare e disporre quella alle sue funzioni, alla sua destinazione in rapporto ad una interpretazione unitaria e centrale, storico-critica a cui, ripeto, l’iniziativa e la vocazione critica sono primum essenziale come l’ispirazione all’operazione artistica.

E ugualmente, se si può capire la diffidenza e il sospetto che la critica possa perdere il suo carattere specifico di critica letteraria e artistica e risolversi solo in storia o storia della cultura quando se ne accentuino preminentemente i caratteri e compiti storici, non sarà perciò da rinunciare al fondamentale impegno storicistico quando si sia bene inteso e fatto valere il carattere di «mediazione» che è sempre costitutivo dei fatti artistici e che tanto meglio si rileva, con possibilità di ricchezza e duttilità concreta, nella considerazione del rapporto poetica-poesia.

Non si vorranno per nulla disconoscere i meriti e gli apporti che critici autentici han pure volta a volta rappresentato in posizioni che possono apparire parziali e insufficienti sul metro della figura complessa che qui si propone (e del resto come non capire che anche la critica ha un suo svolgimento dialettico e problematico, accentua aspetti e problemi volta a volta urgenti e preminenti nella storia della cultura e dell’arte?), ma sarà ben lecito, proprio nella consapevolezza dell’utilità del dialogo e del confronto, identificare entro la presente situazione critica una strada e un impegno piú centrali e complessi.

Che il critico sappia e voglia adibire tecniche e conoscenze, coscienza storica e senso dell’arte alla ricostruzione e interpretazione delle personalità e delle opere nel movimento della storia letteraria e della storia generale, che nel suo atto critico siano presenti e disponibili tutti gli strumenti atti a realizzar la sua operazione e che perciò egli sia tecnico, storico e uomo vivo nella cultura e nella storia e interessato personalmente ai problemi dell’arte e all’affermazione dei valori poetici, sarà meta ambiziosa e ardua, ma non perciò meno stimolante e necessaria.


1 Questo scritto non è, del resto, che la sistemazione piuttosto provvisoria e contratta di una ulteriore esposizione di idee e di esempi piú sviluppata e piú ricca, munita di note e discussioni particolari. Per un appoggio di riferimenti alla critica letteraria italiana contemporanea rimando al breve profilo da me scritto per il II volume dell’opera diretta da F. Lombardi, La filosofia contemporanea in Italia, Asti-Roma 1958.